G25 Spiriti guerrieri


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[alert close=”no”]G 25 Seminole Canyon (Tx) – Brackettville (Tx) 96 km[/alert]

Seminole Canyon è il nome di un affluente del Rio Grande e allo stesso tempo di un parco nazionale famoso e assai frequentato, in quanto contiene una settantina di siti archeologici che risalgono fino al 7000 a.C.

Vi si trovano caverne e rifugi una volta abitati, resti di focolari, cerchi di pietra, sepolture e vari esempi di arte murale preistorica. Il paesaggio è affascinante.

Il nome è stato dato in onore di un gruppo ben preciso di un centinaio di scout Seminoles che durante le guerre indiane di fine ‘800 servirono nell’esercito americano e che riunivano due minoranze in una volta sola: infatti erano di discendenza mista indiana e nera, tanto da essere conosciuti come i Seminoles neri. L’origine sta nella fuga di alcuni schiavi neri dalle loro piantagioni; costoro trovarono rifugio nelle paludi della Florida dove abitavano appunto le tribù Seminoles, ed evidentemente i due gruppi trovarono diversi punti di contatto.

Sotto la guida di John Caballo, o John Horse, i Seminoles neri si spostarono in Messico attorno al 1850 proprio per sfuggire ai cacciatori di schiavi e servirono sotto la bandiera dell’esercito messicano, tanto che John diventò addirittura colonnello. Tornarono venti anni dopo in Texas, quando l’esercito poté offrire loro, oltre al salario, anche un abbozzo di dignità. Furono scout eccellenti, dato che parlavano sia inglese che messicano e conoscevano usi e costumi degli indiani della zona.

Ci troviamo anche nella zona del cosiddetto parco del “Big bend”, la grande curva, uno dei più grandi e isolati degli Stati Uniti. Venne chiamato così perché sembra letteralmente riempire una grande insenatura naturale del Rio Grande, laddove il fiume incontra le Montagne Rocciose e cambia improvvisamente di direzione.

Una delle caratteristiche principali del parco è la sua immensità, con oltre 300.000 ettari che coprono quasi tutta la strada che ho percorso negli ultimi giorni, da Alpine in qua.

I Comanches, che da queste parti erano di casa, hanno le idee ben chiare su come venne creato questo paesaggio insolitamente desolato. Narra la leggenda che il Grande Spirito, dopo aver finito di fare la terra e avere appeso le stelle in cielo e sistemato pesci e uccelli negli ambienti rispettivi, si ritrovò con una gran quantità di macerie per così dire da “smaltire”.

Decise allora di creare la prima discarica a cielo aperto della storia e vi gettò tutto quel materiale di scarto. I Comanches non sanno che l’esempio del Grande Spirito viene seguito al giorno d’oggi da tante persone anche in Italia, ma questa è un’altra storia.

E a proposito di spiriti, grandi e piccini, occorre ricordare che anche la catena dei Monti Chisos viene considerata il rifugio di molti fantasmi, primo fra tutti quello di un capo Apache tradito e giustiziato dai messicani, che si dice stia ancora vagando nei suoi antichi territori di caccia.

Poi ci sono le cosiddette “luci di Marfa”, dal nome di un villaggio che ho sfiorato passando da Fort Davis.

Gli avvistamenti ripetuti di fiammelle notturne misteriose fanno pensare a un fenomeno simile a quello della combustione spontanea di gas che si riscontra, fra l’altro, nelle zone paludose. Il problema è che qui del gas non ce n’è e se questa è una palude, come si dice dalle mie parti, io mi chiamo Cacao.

Insomma, c’è tutta una serie di fenomeni strani e di favole a cui io ovviamente non credo, poiché credere alle superstizioni è assurdo. Però, non crederci può portare sfiga, quindi, per non sapere né leggere né scrivere, dormo in motel ogni volta che posso.

Attraversata indenne questa zona così evocativa, si giunge nella ridente cittadina di Del Rio, che sarà anche una città, ma è tutto fuorché ridente. Sembra la fotocopia in brutto di El Paso. Anche qui c’è una città gemella aldilà del confine messicano, anche qui il 90% della gente parla spagnolo, ma si respira un’ariaccia brutta.

Difficile spiegare una sensazione, ma c’è una scortesia nei modi, un’arroganza nei comportamenti spiccioli, una spavalderia da bulli di provincia che fa venire spontanea la voglia di andarsene. E infatti è proprio quello che ho fatto, dopo alcune riparazioni dal meccanico. Prego notare che non ci sarà più un negozio di bici per i prossimi 5-600 chilometri, quindi ho dovuto accontentarmi di quello che passava il convento.

E il convento passava un negozio molto speciale, composto di due locali comunicanti. Nel primo lavora un giovane volonteroso che bazzica con le bici da tre mesi e ogni volta che parla depone l’attrezzo con cui stra lavorando, per cui una regolatina al cambio prende sulle due ore.

Nel secondo c’è una bella esposizione di piastrelle in ceramica e marmi. Quando si dice la complementarietà delle attività! Comunque, sono ripartito con una piastrella nello stomaco dal nervoso per il tempo perduto e ho potuto godere delle meravigliose strade di Del Rio che, grazie alla pioggia torrenziale del giorno prima, si mostravano in tutto il loro splendore: pozzanghere a non finire, buche da tutte le parti e marciapiedi zero. E chi se ne frega se le strade sono in uno stato pietoso e non ci sono i soldi per ripararle? Nessuno, a giudicare dalla risposta impeccabile dell’uomo della strada da me interrogato con una punta di sarcasmo:

“Tanto io ho il pick-up 4×4”. Ah beh, allora…!

Forse l’unica nota piacevole è una cantina, la Val Verde Winery, che mi sta simpatica perché è la più vecchia di tutto il Texas, organizza degustazioni della propria produzione e soprattutto venne fondata da un immigrato italiano, tal Frank Qualia, i cui discendenti gestiscono ancora l’attività. Con tutta la simpatia per questa famiglia di connazionali, però, non me la sono sentita di provare il vino texano.

Dopo è stata una lunga pedalata fino a Brackettville, che si è rivelata essere una cittadina finalmente un po’ carina, dove perlomeno tante case sono state (ri)costruite con la stessa pietra locale intagliata e cercando di mantenere uno stile un po’ retro (western ovviamente), ma alquanto piacevole. Non è un caso che proprio qui sia stato girato il film “The Alamo”, con John Wayne, e il villaggio è ancora oggi meta di pellegrinaggio da parte dei cinefili a caccia di souvenir.

In realtà, chi dice Brackettville dice Fort Clark. Come indica il nome, trattasi di una ex base dell’esercito che ha funzionato come tale dal 1852 fino a subito dopo la seconda guerra mondiale. Ed è proprio qui che vennero reclutati i Seminoles neri, gli scout di cui parlo all’inizio di questo post e che non devono essere confusi con i Buffalo soldiers di qualche giorno fa.

Da qui passarono in quegli anni anche (dico sul serio!) le truppe cammellate americane, quando, proprio per far fronte all’aridità terribile del Texas occidentale, venne fatto il tentativo di usare i cammelli come animali da trasporto viveri e truppe. La storia è simpatica, vedrò di raccontarla domani.

Oggi l’ex forte è diventato una cosiddetta “gated community”, ossia una comunità chiusa letteralmente dietro un’ampia recinzione e protetta da un servizio d’ordine all’entrata. Di militare rimangono i nomi delle strade intitolate a generali e comandanti vari, la casa che fu del generale Patton e gli abitanti, quasi tutti ex appartenenti alle forze armate.

Di civile (nel senso di non militare ), c’è un motel e un campeggio attrezzato.

Stasera piove e fa freddo: per uscire ci vorrebbero Montgomery e Wellington.

Nel senso di cappotto e stivali!