G7 – Wickenburg (AZ) – Phoenix (AZ) 117 km

E così arrivo nella capitale dell’Arizona, Phoenix, la Fenice, appunto. Quello che mi fa ridere è che, con faccia di bronzo invidiabile, gli abitanti si sono impossessati del nome di uno dei grandi popoli del passato. E si fanno chiamare Fenici. Nientemeno, alla faccia della modestia.

Nella fattispecie, mi viene in mente la vecchia storiella del presidente Reagan che, in visita ad Amburgo e volendo riprendere, adattandola, la famosa frase di Kennedy, inizia il suo discorso con un terrificante: Ich bin ein Hamburger!

Un passo indietro. Il punto di partenza della tappa è stata la cittadina di Wickenburg, fondata attorno al 1860 come insediamento di minatori e cercatori d’oro e argento. È finora il primo posto dove parecchia gente va veramente in giro col tipico cappello da cowboy in testa, il mitico Stetson, dal nome dell’inventore.

A parte i cappelli, però, Wickenburg dà l’idea del trappolone per turisti, una specie di Disney-west. Tutto è stato (ri)costruito per dare l’impressione di essere in una città della vecchia frontiera; addirittura ci sono statue di finti pistoleros e ballerine fuori dal saloon con le porte girevoli di plastica, finti cowboy con stivali a punta e lazo e l’immancabile sceriffo con la mascella volitiva: praticamente John Wayne.

Ma dicevamo di Phoenix. Per capire cos’è, bisogna pensare all’espressione “a macchia d’olio”, perché proprio di questo trattasi: quattro o cinque città cresciute nel deserto e che si sono andate avvicinando col tempo, fino a formare un grumo urbano indistinguibile di circa 100 km per 100 km! Dato che le cartine ciclistiche non sono sempre inappuntabili, è finita che mi sono perso e ho fatto una trentina di km più del dovuto.

Ciò mi ha permesso però di vedere le varie facce della città.

C’è un quartiere che sembra di essere in una puntata di Beautiful: villoni, giardinoni, macchinoni e tutti gli “oni” che vi vengono in mente, nel bene come nel male. Le case sono rigorosamente ad un piano solo, che gli americani si ostinano a chiamare primo piano e il resto del mondo chiama pianoterra. Per avere una casa di più piani, o si è un miliardario eccentrico abituato ad andare a Montecarlo, o un disgraziato.

Caratteristica inconfondibile: un odore inebriante di fiori d’arancio, che mi ha accompagnato per almeno 20 km. L’arancio (col tronco tutto bianco per motivi fitosanitari) è la pianta d’elezione dei quartieri chic, anche se poi la gente va a comperare le arance della Florida. La seconda pianta per eccellenza (udite, udite) è l’ulivo. Quando ho visto tutti quegli ulivi nei giardini e lungo i viali, ho temuto che la mia neonata ma fiorente attività di produttore di olio ( ben 30 litri nel 2009) fosse destinata al fallimento. Qui basta che raccolgano le olive di due case che già mi surclassano…

Astutamente, ho interrogato con fare distaccato Carlito, un volonteroso giardiniere messicano fra i tanti che popolano il quartiere e ho scoperto che posso dormire sonni tranquilli. Avendo los señores americanos una barca di soldi, preferiscono comperare l’olio d’oliva Bertolli al negozio locale macrobiotico a 20 dollari la bottiglia (da mezzo litro). Per di più, hanno il terrore che le olive cadano a terra e insozzino i preziosi prati all’inglese. La soluzione è semplicissima: si paga Carlito non per raccogliere le drupe, ma per irrorare le piante con un prodotto che impedisce alle olive di formarsi. Posso seriamente pensare a trovare un importatore per il mio olio a Phoenix!

Continuando verso la destinazione, sono transitato per il gigantesco quartiere del ceto medio: le strade vanno dalle 4 alle 6 corsie, più quella per svoltare. Facendo i conti, all’incirca il triplo della statale Adriatica.

Case linde con giardino e garage, pick-up nel vialetto, bandiera americana al vento. Niente aranci o ulivi, evidentemente troppo da fighetti. Qui si ritorna al buon vecchio cactus saguaro (pronuncia “sauàro”) trapiantato in tutte le forme e dimensioni direttamente dal deserto.

Da ultimo, sulla strada dal centro all’aeroporto, mi imbatto nel quartiere dove abitano, tra gli altri, tutti i Carlito più o meno legali di cui sopra.

Le case diventano tugureggianti, la pelle delle persone diventa misteriosamente più scura, crescono i decibel delle conversazioni e, tristemente, cresce il volume della gente, che si nutre quasi esclusivamente di birra ghiacciata e di fast food. E si vede!

Compaiono i venditori di pneumatici usati (sic) e le attività tornano a chiamarsi con il loro nome: nel quartiere “in” ho visto un indimenticabile Complete auto care and collision damage center, letteralmente “centro assistenza totale auto e danni da collisione”.

Qui si torna a parlare di auto-carrozzeria.