G -3 I polli della British Airways
La direttiva europea 74/1999 prevede norme dettagliate affinché gli allevatori di galline in batteria tengano gli animali in condizioni igieniche ed etologiche accettabili, garantendo ad ognuno almeno 600 cm2 (cioè uno spazio di 30 x 20, che non è certo esagerato: come dire che un essere umano, mutatis mutandis, ha diritto ad uno spazio di circa tre metri per due).
Questa direttiva importantissima non si applica, purtroppo, alle bestie che salgono sugli aerei della British Airways in classe economica, pardon… world traveller.
Undici ore è durato il calvario, incastrato a forza in un sedile in cui riuscivo a entrare solo prendendo la mira. E ogni volta che appoggiavo il gomito sul bracciolo per evitare lo schiacciamento della cassa toracica, finivo per premere l’interruttore della luce della plafoniera. Un incubo, esacerbato dalla presenza alla mia destra di una signora che deve aver fatto dell’antipatia una ragione di vita. Riuscendoci perfettamente.
A bordo era tutto in puro stile Dickens, nel senso di Oliver Twist per la qualità del cibo e David Copperfield (l’illusionista) per il servizio.
Si è raggiunto il ridicolo quando l’area di servizio/cucina che separa le due parti della tradotta si è trasformata in una specie di self-service, con il personale di bordo a chiacchierare beato e i passeggeri in fila a servirsi a piacimento. Sembrava un pullman di tifosi in autogrill che svuotano gli scaffali senza passare alla cassa!
A Los Angeles, esaurite le formalità e consegnati i mitici formulari doganali, ho preso la corriera fino a Union Station, considerata l’ultima (in ordine di tempo) delle grandi stazioni ferroviarie americane, edificio cult del cinema, per essere servita da sfondo in decine di film, fra i quali ricordo al momento Blade Runner e Pearl Harbour.
Se la stazione risale alla fine degli anni ’30, lo stesso purtroppo si può dire della qualità del collegamento garantito da Amtrak, il gestore privato della rete, in questo pomeriggio di venerdì. Trenta dollari per il biglietto, ma alla partenza si annuncia che vi sono solo posti in piedi. Caos indescrivibile, accatastamento di corpi, valigie e computer per oltre un’ora. Poi, lentamente, il pendolare stanco giunge alla sua casetta sull’oceano e lascia al viandante stravolto uno strapuntino su cui crollare.
Finalmente San Diego. Manca la metà dei bagagli consegnati alla partenza (grande idea questa, se solo funzionasse), ma per fortuna il mio c’è e con quello mi avvio al taxi, ultimo mezzo di trasporto della grande odissea.
Salgo. Segue breve conversazione che fa pensare alla vecchia barzelletta del tipo che va dal veggente e bussa: “Toc toc”
“Chi è?”
“Ah, cominciamo bene!”:
Emilio: Alabama Street, please
Taxista: What?
E: Alabama Street 4086, please
T: Do you know where that is?
E: I kind of thought that you would know…
T: No, I don’t. Let me get the GPS !
Stranamente, la voce del GPS appeso al vetro gli dice di svoltare a destra, ma lo schermo indica a sinistra. L’uomo è perplesso. Accosta, studia l’oggetto con circospezione, lo tocca. Se non fosse che il tassametro corre, lo lascerei anche fare per vedere qual è il limite dell’idiozia umana. Ma sono troppo stanco, sono le 9 e la notte è buia.
Gli dico che l’ha montato alla rovescia.
Gli dico anche che British Airways cerca personale per sostituire quelli in sciopero per tre giorni da domattina.