G38 Signore perdonali…
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… perché non sanno quello che mangiano
Nota bene: in questo post “cucina americana” significa quello che ho mangiato nei villaggi che ho attraversato in California, Arizona, Nuovo Messico e Texas.
In Luisiana c’è ancora speranza.
A scuola ci hanno insegnato che la grammatica italiana prevede diversi gradi per gli aggettivi.
Per illustrare il concetto, prendiamo come esempio una frase qualunque costruita attorno all’aggettivo “cattivo”:
– Grado positivo: la cucina americana è cattiva
– Grado comparativo di maggioranza: la cucina americana è più cattiva/peggiore di quella di mia mamma
– Eccezione: il grado comparativo di minoranza e comparativo di eguaglianza non si applicano a questa frase, perché non riesco a trovare niente di uguale o peggiore.
– Grado superlativo relativo: la cucina americana è la più cattiva fra tutte le cucine al mondo.
– Grado superlativo assoluto: la cucina americana è cattivissima/pessima.
Ora, per rendere appieno il livello di quello che ho mangiato fino a due-tre giorni fa occorre che l’Accademia della Crusca autorizzi l’aggiunta di un ulteriore grado dell’aggettivo, il cosiddetto “grado Zelig”.
Così si potrà finalmente dire, senza paura che la maestra ci corregga con la matita rossa, che la cucina americana “fa cagarissimo”.
In realtà non è neanche giusto parlare di cucina americana, nel senso che la cucina è stata appaltata: una parte è stata affidata all’estero, soprattutto al Messico, quell’altra è monopolio di una serie di multinazionali che garantiscono l’approvvigionamento nutrizionale di una buona fetta di cittadini.
Non di tutti, è vero. Aprendo bene il portafoglio, soprattutto nelle città di dimensioni importanti si riesce a mangiare decentemente, nel senso che esiste quello che noi chiamiamo un ristorante e soprattutto esiste la varietà della scelta.
Ad Austin, El Paso, Phoenix, tanto per fare qualche esempio, si trova un po’ di tutto: il giapponese che fa sushi, o l’indiano col suo tandoori, persino un italiano vero.
Addirittura ci sono negozietti specializzati che vendono prodotti bio, anche se il pagamento richiede un certo numero di pepite d’oro!
Il vero dramma riguarda tutti gli altri posti, l’America profonda dei villaggi dove transita e pernotta l’incauto ciclista. Qui non c’è scelta: o messicano o fast food. Tertium non datur.
Cominciamo dal primo: messicano o Tex-Mex? Non lo so, è da quando sono partito che sento favoleggiare del Tex-Mex come di una prelibatezza. Avrò chiesto a cento persone e nessuna mi ha saputo dare una risposta precisa. La mia conclusione è che Tex-Mex vuol dire prendere le ricette messicane, rovinarle aggiungendo ingredienti locali e fare le porzioni più abbondanti.
La prima volta che ho visto il menù di uno dei centomila locali dove si mangia “messicano” (o Tex-Mex?), sono rimasto colpito dal numero di piatti apparentemente diversi: tacos, enchiladas, tamales, burritos, chimichangas, nachos, tortillas ecc.
Ho cominciato, in mancanza d’altro, a ordinarli uno alla volta e sempre di più avevo questa sensazione di déjà vu, anzi di déjà mangé. Dopo qualche giorno ho capito il perché: sono tutti fondamentalmente uguali.
Il principio è che si prende una tortilla, cioè una piadina estremamente sottile (si può scegliere tra frumento e mais), ci si spalma sopra qualcosa e si aggiunge qualcos’altro. Il contorno è riso. Punto.
È un po’ come in autogrill, dove ai panini danno un nome di fantasia, ma sempre panini restano.
E adesso il fast food. C’è poco da dire: per tanta, troppa gente è il cibo ideale, che combina pragmatismo (cioè il tempo perso a mangiare), sedentarietà e risparmio. Gli hamburger sono invitanti, con quel panino caldo, morbido e impregnato di sughetto grasso, quelle due foglioline di insalata che fanno bene alla coscienza e quel conto leggerissimo alla fine. Compri uno e prendi due, addirittura mi sono imbattuto in una terrificante “happy hour” degli hamburger dalle due alle quattro del pomeriggio, durante la quale (giuro, ho chiesto), paghi uno e prendi tre.
Per giunta i locali sono praticamente sempre aperti, spesso 24 ore al giorno e in genere sono muniti del drive-in: uno arriva in macchina allo sportello, ordina, paga e aspetta che gli venga consegnata una sportina di plastica con dentro il pranzo. Un ampio parcheggio consente di consumare senza neanche scendere dal veicolo. Tempo dieci minuti e il pieno di calorie è fatto.
Il più spaventoso, per me, è KFC, quello del pollo fritto. Una sera ho ordinato il petto di pollo; mi hanno dato tre pezzi indefinibili di roba morbida e unta. Sembrava il film “Il bello, il brutto e il cattivo”: infatti uno era discreto, uno puzzava e il terzo sembrava una quaglia. Intera. E avrei dovuto pure mangiare senza posate, in una scatola di polistirolo e berci dietro una pepsi. Mi sono detto che a certe condizioni è meglio la fame, e me ne sono andato.
Dimenticavo che la scelta di bibite nei locali fast food è limitata a quelle bevande che gli americani chiamano, con termine generico, “soda”.
Sono le stesse bibite che si trovano dal benzinaio di cui parlavo ieri, tutte gassate, tutte dolciastre, tutte profondamente sbagliate da tutti i punti di vista.
I primi giorni mi ostinavo a chiedere un’acqua gassata, con scarsissimo successo: i venditori di hamburger non sanno nemmeno cosa sia.
Per non farsi soffiare una fetta di mercato importante, qualcuno ha pensato bene di giocare al rialzo e di aprire catene di “fast food messicano”, combinando così i difetti dell’uno con le disgrazie dell’altro.
Tralascio i dettagli e gli incroci alimentari pericolosi che mi sono visto propinare.
Dirò solo che una delle catene in questione si è scelta un nome nobile, anzi principesco. Sai la soddisfazione: posso finalmente dire che sono stato a cena da Filiberto!
Siparietto finale:
Per passare inosservati nei posti chic, bisogna sapere quale acqua minerale va di moda. In California si chiede una “Club soda”, oppure una “Perrier”.
Le mie prime conversazioni sono state del tipo:
Emilio: Hi, I would like some sparkling water, please.
Cameriere: Sorry, what’s that?
E: Well, fizzy water…
C: You mean a soda?
E: No, plain water, but…
C: You mean fresh water?
E: Yes… no, I mean fresh water with bubbles
C: You mean a Pellegrino?
E: Exactly, a Pellegrino, please !
Quindi, per un bicchiere di minerale frizzante si chiede una “Pellegrino”.
Evitare il “San” perché confonde, per così dire, le acque.