G41-42 Ancora Armstrong
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[alert close=”no”]G 41-42 Denham Springs (LA) – Franklinton (LA) 103 km[/alert]
Avrei dovuto capirlo prima, ma finalmente ci sono arrivato: il motivo per cui le città americane, soprattutto quelle grandi, non mi piacciono è che non sono costruite pensando agli abitanti, bensì in funzione delle automobili.
La lampadina si è accesa quando sono arrivato a Baton Rouge, la capitale della Luisiana. Ho trovato un motel dalle parti dell’aeroporto, a nord della città. La mattina dopo è venuto a prendermi Dave Tullier, il meccanico con cui mi ero messo d’accordo alla vigilia, che mi ha portato a sud della città, dove abita con la moglie Cindy e ha il suo garage-bottega. Per attraversare la città abbiamo percorso la I 10, un’autostrada a 5 corsie: in questa frase c’è l’essenza di una città americana. Mi spiego.
Prendiamo la via Emilia: subito prima dei capoluoghi e delle città importanti, troviamo una bella circonvallazione che dirotta il traffico di passaggio, per cui la via Emilia in questione prende le sembianze di una strada normale, con semafori e attraversamenti pedonali, e così “ridotta” attraversa la piazza principale, che è anche il centro della città.
All’altra estremità si ricongiunge con la circonvallazione e riparte.
Qua è il contrario. Alla periferia della città, la tranquilla statale con corsia d’emergenza, che i ciclisti possono usare in sicurezza, diventa una specie di tracciato di Formula 1, spesso sopraelevato e stretto in barriere di cemento, che attraversa tutto il centro abitato, e da cui si prendono le varie uscite per andare in un quartiere o l’altro. Risultato: arrivare in centro con la bici è difficile, quando non impossibile, e sicuramente pericolosissimo.
Una volta che si è comunque giunti in centro, magari in camioncino come ho fatto io, la situazione non migliora. Nella zona residenziale di Baton Rouge dove mi trovavo, i marciapiedi non esistono e per andare dall’albergo a casa del meccanico, (distanza un chilometro tra sì e no) ho dovuto camminare in mezzo all’erba, dove col tempo si è creato una specie di stretto sentiero, fatto da tutti i disgraziati che non hanno un’automobile, cioè i poveracci, i senzatetto, i sonnambuli e il sottoscritto. La conclusione è semplice: qui non siamo a New York, dove si gira tutta Manhattan a piedi, in autobus o in metropolitana. Chi non ha l’automobile, da queste parti è un pezzente e la vita non gli viene certo facilitata dal fatto che i grandi magazzini sono concentrati attorno alla città, a distanze proibitive per il pedone comune.
Per dirne una, non ci sono solo i drive-in per andare a mangiare fast food. Ci sono anche quelli per prelevare soldi al Bancomat. Una sera sono andato a fare un prelievo, ovviamente a piedi, e mi sono messo ad armeggiare con la carta. Un tipo che arrivava in macchina mi ha guardato e ha fatto marcia indietro.
Va bene che mi abbronzo facile e in vita mia mi hanno già preso per marocchino, cipriota, turco e mediorientale in genere. Va bene che uno vestito da ciclista è uno spettacolo che vedono solo a Carnevale (il famoso Mardi Gras), ma insomma, come si fa a prendere per delinquente uno con la maglia della Cotignolese?
Comunque, la cosa più bella di Baton Rouge è il suo nome. Si dice che sia nato quando il signore di Iberville, a capo di una spedizione che stava risalendo il Mississippi nel 1699, vide un tronco di cipresso a cui erano appese le carcasse sanguinolente di animali e pesci.
Era il confine tra i territori di caccia di due tribù indiane e da quel momento la zona venne conosciuta come il “bastone rosso”.
Ieri invece ho affittato un’automobile e sono stato a visitare New Orleans, la città che come simbolo ha il giglio dei reali di Francia. Altra merce! Non esito a dire che è la città più bella vista finora in questo viaggio, nonostante il tempo miserabile che mi ha accompagnato: pioggia fine quasi tutto il giorno, e oltre 30 gradi con umidità esagerata. Ad essere precisi, di New Orleans ne ho viste quattro.
La prima è l’immancabile “Quartiere francese”, che è uno spettacolo unico, anche se si è ormai trasformato in una potente macchina attira-turisti.
Case bellissime e colorate, spesso di legno, balconi fioriti, negozietti che vendono di tutto (molta paccottiglia, ma non solo), un’infinità di bar pieni di gente che beve birra già alle 9 di mattina, ristorantini, antri bui che invitano a entrare nel mondo del voodoo, personaggi assurdi che girano in bicicletta (non io, per una volta!), e tanta tanta musica che esce da tutte le parti, quando non è prodotta da qualche orchestrina che suona sotto i porticati: un’atmosfera irripetibile, soprattutto in questi giorni in cui si svolge il festival del jazz.
Al mercatino ho comprato una compilation dei migliori artisti di musica “cajun” e tornando mi sono fatto una scorpacciata di ritmi popolari dominati dalla fisarmonica e dal violino, dicendomi che non erano poi così diversi da quelli che si suonavano nelle nostre aie: mancava solo la ghironda.
La seconda New Orleans che ho visto è quella che si dipana attorno alla via intitolata a San Carlo, che corre parallela all’insenatura del Mississippi e che, volendo, si può percorrere anche in tram d’epoca.
È una collezione incredibile di dimore signorili del 19° secolo, un florilegio di stili architettonici, un’ esplosione di creatività quale raramente si vede in un unico luogo. Saranno 5 o 6 chilometri di puro godimento degli occhi.
La terza New Orleans che ho visto è quella che fa da ala al quartiere francese e al quartiere delle grandi dimore. È la città del ceto medio, molto estesa, che mantiene un fascino particolare. È come se fosse una versione ridotta degli altri due quartieri: case meno appariscenti, certo, ma aggraziate e originali, tanti negozi etnici, una vita brulicante non macchiata dal turismo di massa. E, cosa importantissima che mi ha fatto pensare ad Austin, capitale del Texas, un’evidente lotta spietata contro le grandi multinazionali del cibo facile. Al punto che l’unico Mcdonald che ho visto aveva l’insegna ad altezza del terreno e soprattutto dello stesso color pastello delle case circostanti: gli amministratori si saranno detti che almeno l’occhio deve avere la sua parte, visto che non può averla lo stomaco!
Che bello se New Orleans fosse tutta qua.
E invece c’è la quarta parte, la città dei più poveri (al 90% neri), quella che nel 2005 più di tutte patì l’impatto dell’uragano Katrina, che qui lasciò oltre 1.500 morti e coprì di ridicolo e di vergogna l’intero governo americano. A onor del vero, l’impressione che ho ricavato non è, nell’insieme, così drammatica. Si vede chiaramente che qualcosa è stato fatto e molto si sta facendo. A occhio e croce, una metà delle case è stata risistemata ed è abitata. L’altra metà è semplicemente abbandonata, porte e finestre sbarrate da assi di legno e erbacce nel giardinetto. Si vedono attività che hanno ripreso, chiese rifatte, negozi aperti, ma anche rottami di auto abbandonate, gruppi di giovani che bighellonano per i marciapiedi (quelli almeno ci sono), strade rattoppate alla bell’e meglio. Sinceramente, non so dire se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto; dico solo che temevo fosse ancor peggio di così.
Sono ripartito da New Orleans portando con me un ricordo nell’insieme molto bello di una città senza dubbio unica, almeno per quello che ho visto io.
Certo, tutti parlano della criminalità rampante; e vedere la sommità dei muri dei giardini coperta di cocci di vetro e filo spinato per evitare intrusioni ha confermato che dietro alla musica e al cibo cajun, dietro alle feste serali a base di birra e dietro allo sforzo della ricostruzione per dare un alloggio decente a tutti, qualcosa ancora ancora non va nella città di Armstrong.
Già, ma quale Armstrong? Louis Armstrong, naturalmente, che qui era nato e a cui sono intitolati sia l’aeroporto che un immenso parco tuttora in fase di recupero. La domanda comunque, non è peregrina, e verrebbe da dire che “stato che vai, Armstrong che trovi”. In Texas questo cognome è associato a Lance, il ciclista. In Luisiana è Louis, l’immenso jazzista che nel 1968 venne anche a cantare a Sanremo. In Florida, soprattutto dalle parti di Cape Canaveral, l’associazione sarà con l’astronauta che per primo mise piede sulla luna. E in Italia? Se non erro anche noi possiamo vantarne uno. Scriveva su l’Unità quando io ero un bambino.
Si firmava Fortebraccio.