G49 Florida o Cervia?
[alert close=”no”]Percorso: G 49 – De Funiak (FL) – Marianna (FL) 93 km[/alert]
Ma dopo averci pedalato per tre giorni, si può sapere com’è questa Florida? La prima reazione è di rispondere che è in tutto e per tutto identica ai territori in cui mi muovo da quando ho lasciato il Texas: campi, prati verdi, foreste di conifere e infine acqua, tanta acqua, che si tratti di paludi, stagni, fiumi, laghi o semplici rigagnoli.
Tutto bellissimo, per carità, ma nell’insieme la sensazione dominante è quella di una certa delusione, anche se spiegarla non mi è ancora facile. Dopo averci riflettuto un po’, la soluzione potrebbe essere semplice.
Durante i primi due terzi del viaggio ho avuto la nettissima sensazione (o forse suggestione?) di attraversare il mito, anzi una serie di miti.
Il solo nominare la California evoca in ciascuno di noi una miriade di ricordi personali che ovviamente variano a seconda dell’età e delle esperienze, ma che sono comunque legati ad avvenimenti e personaggi difficili da ignorare: la costa, Big Sur, il movimento pacifista ai tempi del Vietnam, Kerouac, poeti del calibro di Ferlinghetti, decine di musicisti, Hollywood, Reagan, i Los Angeles Lakers, San Francisco, e ognuno potrebbe completare la propria personalissima lista.
I tre stati successivi, Nuovo Messico, Arizona e Texas richiamano, penso per la maggioranza di noi, l’epopea del West, anche se ci è stata proposta per decenni nella sua forma più idealizzata dai film americani, che solo negli ultimi tempi hanno corretto il tiro, dandoci una lettura storicamente più equilibrata.
Ma il bello di questi stati è che il West lo senti e lo vedi ancora, e non parlo delle città-trappola con le facciate dei saloon di cartongesso. Parlo di una combinazione unica di paesaggi e persone. I primi sono durissimi, primitivi, a prima vista inospitali, con i loro deserti, i canyon, i letti secchi di fiumi che un temporale rianima in pochi minuti, i massi in bilico in cima alle colline a volte aride e a volte coperte di fiori: terreni ideali per un agguato, e quante volte ho fantasticato di vedere una diligenza o una fila di guerrieri comparire dal nulla dietro la curva…
E poi la gente, i discendenti di coloro (bianchi, messicani o nativi, vincitori o perdenti) che in questo ambiente spesso inospitale hanno voluto cercare fortuna finendo magari rovinati, hanno preso in mano la legge finendo per lasciarci la pelle, o hanno difeso contro tutto e contro tutti i frutti di anni di privazioni e lavoro.
È lo spirito della frontiera che si sente aleggiare ancora da queste parti, è un qualcosa di impalpabile eppure così presente, è quella volontà fatta di testardaggine, spirito di sacrificio e fede incrollabile nel miglioramento della propria situazione.
È questa, per come l’ho sentita io, la chiave dell’individualismo pragmatico, egoista e isolazionista di “questi” americani, ed è solo così che spiego certe posizioni che ad un europeo come me, imbevuto di “stato”, di “sociale” e di “collettivo”, risultano incomprensibili.
Ebbene, dal momento in cui sono entrato in Luisiana è cambiato tutto: il paesaggio, improvvisamente dominato dall’abbondanza d’acqua, e la gente, molto più eterogenea per atteggiamento e origine, è nell’insieme meno accogliente, meno interessata, con punte di chiusura e di ignorante arroganza da lasciare stupefatti.
Su quest’ultimo punto ho già avuto modo di esprimermi, ma ci torno per un attimo.
Ieri sono arrivato a Milton nel primo pomeriggio e mi sono fermato ad ammirare il monumento (l’ennesimo) ai caduti di tutte le guerre. Una grande lapide di marmo nero esalta l’America come paladino della libertà, mettendo nello stesso sacco il Vietnam, la seconda guerra mondiale, il bombardamento della Libia e la fallita invasione della Baia dei Porci.
Ci sarebbe da discutere non poco su questa presentazione, ma non è di questo che volevo parlare.
A prendere il sole su una panchina c’erano due ragazzi del paese, Amanda e Alex, con cui mi sono intrattenuto a lungo. Mi hanno spiegato che, per capire come va la vita a Milton, occorre guardare l’atlante: ufficialmente siamo in Florida, ma scherzosamente la zona viene chiamata LA (come le iniziali di Los Angeles), dove LA sta per “Lower Alabama”, l’Alabama del Sud.
Per vivere qui occorre essere “free, white and religious”, dove “free” sta per maggiorenne, “white” sta per bianco e “religious” sta per fondamentalista.
Fino a due anni fa c’era il divieto di vendita di alcolici, il teatro è chiuso, non ci sono librerie.
Amanda ha fatto due anni di università, non è riuscita ad avere una borsa per continuare e adesso, se non trova un lavoro, addio studi: già, perché retta e alloggio all’università statale sono dell’ordine di 15.000 dollari. A trimestre!
Poi ci sarebbe anche da vivere.
È questa dunque la Florida? Probabilmente no; siamo all’estremità occidentale, in piena cintura della Bibbia, lontani dalla Florida della coltivazione degli agrumi, lontani dalla capitale, da Miami, dalla diaspora cubana e dalle spiagge esclusive per turisti danarosi in cerca di sole fuori stagione.
Giudizio sospeso, dunque, ma una prima constatazione la faccio, per “vestire” un po’ quella delusione di cui parlavo all’inizio: sarà anche la Florida, ma se nessuno me lo avesse detto, non lo avrei mai saputo, nel senso che avrei potuto trovarmi da qualsiasi altra parte nel mondo.
Le foreste di conifere non sono diverse da quelle del Canada, della Germania, delle Ardenne, della Finlandia.
E nemmeno dalla pineta di Cervia.
Con l’aggravante che qui non c’è un bar dove guardarsi la finale di Champions League!