Offro io …

Il fiume Mississippi, con i suoi 3.701 km, percorre gli Stati Uniti da nord a sud.

Io, con i miei quasi 5.000 km in bicicletta, ho percorso gli Stati Uniti da ovest a est.

Facendo un calcolo approssimativo (chilometri percorsi x campo visivo), penso di avere fisicamente “visto” una striscia di questo paese grossomodo equivalente alla superficie del corso del Mississippi (lunghezza x larghezza, più il delta).

Non è molto, a ben guardare: una metaforica fettina di carpaccio made in USA, appena sufficiente per farsi un’idea di quale sia la realtà quotidiana di una particella d’America.

Già, ma quale America? Quella che, mi verrebbe da dire, nessuno mostra in televisione, se non in qualche documentario agiografico sul Far West, su una razza di tori dalle corna impossibili o sulla ricostruzione di un viaggio in moto, da costa a costa, lungo la mitizzata Route 66.

È in ogni caso l’america con la “a” minuscola, l’America profonda, o, come mi ha detto un giorno l’abitante di un villaggio sperduto, l’America che è rimasta indietro.

Ed effettivamente, il completamento della Interstate 10, la vera arteria che congiunge la California alla Florida, poco a nord di Saint Augustine, ha avuto ripercussioni importanti sulla vita delle regioni attraversate.

Ha finito per far appassire molte delle attività che prosperavano sulle vecchie statali famose, come la Route 66, la Old Route 80, o ancora la Highway 90, che sono proprio le strade che ho in parte usato io.

I villaggi che vi fiorivano sono in crisi, perché tutto il necessario per i viaggiatori si è spostato attorno alle uscite dell’autostrada, dove, spesso in mezzo al nulla, si trovano i servizi di base (rifornimento, vitto e alloggio) ormai monopolizzati dalle grandi multinazionali.

E chi dice autostrada, dice automobile, forse il simbolo americano per eccellenza. Mi sono già dilungato su come tutto, a partire dalla struttura stessa dei paesi, sia progettato in funzione del possesso di un veicolo.

Ebbene, sono felice di annunciare che anche qui le cose potrebbero cambiare, con un clamoroso ritorno al futuro.

Accanto ai pick-up da 7.500 cc. di cilindrata, posso documentare la sopravvivenza di almeno due modelli di utilitaria insuperabili.

Se riprende la loro produzione, la città di Detroit, che ha perso quasi la metà degli abitanti da quando l’industria dell’auto è crollata, può farcela a uscire dalla crisi. E con lei, l’America intera.

Si tratta della nostra 500 e del modello T della Ford, risalente al 1919.

Fidatevi, so quello che dico: la prima ce l’ho e la seconda l’ho provata!

Per dare invece un’idea della mentalità del paese che ho attraversato, mi è venuta in mente la sua immagine simbolo, quella dell’hamburger: due fette “liberal” che racchiudono un grosso contenuto “conservatore”.

Certo è una forzatura, ma rende l’idea della differenza che può esserci in termini di atteggiamento, di comportamento e di apertura, fra le zone costiere della California e della Florida e, con le dovute eccezioni, qualche migliaio di chilometri di territorio che c’è in mezzo.

Qualcuno mi ha chiesto cosa mi ha colpito di più in questo viaggio.

Difficilissimo rispondere. In positivo, direi gli stati del West: Nuovo Messico, Arizona e soprattutto Texas, per i paesaggi indimenticabili e, a mia grande sorpresa, per la solidarietà e la disponibilità all’incontro da parte della gente. In negativo gli stati a est del Texas.

La sua capitale, Austin, ha rappresentato non solo la fine della prima parte del percorso, ma anche il passaggio verso un mondo diverso, più chiuso, timoroso del contatto con la realtà, con lo sguardo fisso su un passato ai limiti del puritanesimo bigotto, e spesso ben oltre.

Girando da queste parti, ho visto anche come si manifesta una delle grandi costanti americane: l’isolazionismo.

Nei pochi notiziari seri che ho seguito, ho sentito parlare di Europa tre volte in due mesi. Ogni volta la notizia consisteva nel vedere quali erano le conseguenze per gli Stati Uniti: la vittoria dei conservatori in Inghilterra ( = il rapporto speciale fra i due paesi), la crisi della Grecia (= il cambio euro/dollaro) e l’eruzione del vulcano in Islanda (= possibili problemi commerciali). Punto. Il resto non esiste.

Nessuno sa cosa sia l’Unione Europea. Per spiegare chi è il mio datore di lavoro, ero obbligato a far ricorso alla classica espressione: I work for the government, lavoro per il governo.

Sapendo perfettamente che “lavorare per il governo”, da queste parti, è come dire che si ha la lebbra.

Non ho certo la pretesa di aver capito a fondo ognuno degli stati che ho attraversato. In due mesi li ho appena sfiorati e so che ognuno di essi meriterebbe un’analisi a sé e tantissimo tempo per poterla fare.

Il mio diario di viaggio ha voluto essere solo una raccolta di impressioni personali, per definizione soggettive, ma se c’è una cosa che voglio dire è che mi sono divertito come un matto a scrivere una paginetta o due (quasi) ogni sera.

Non solo perché tutti andavano a letto con le galline e dopo le otto non c’era niente da fare, ma anche perché volevo cercare di conservare la freschezza dell’esperienza e buttar giù la mia personale lettura di quello che avevo visto, letto, imparato, immaginato, capito o creduto di capire.

È stato bellissimo condividere questa mia esperienza con tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggere il blog, e ancor più di commentarlo. Non potete immaginare quanto sia stato importante il sostegno che mi hanno dato tutti i messaggi, i commenti, le mail e le telefonate che ho ricevuto. Grazie, davvero!

Mi avete aiutato non a fare un’impresa (quella è roba seria!), ma a mettermi alla prova, a conoscere meglio i miei limiti e anche i miei punti di forza, e in ogni caso a realizzare un sogno da tanto tempo nel cassetto e ad assaporare una forma di libertà diversa.

E così, ieri ho finalmente immerso la bicicletta nell’Atlantico!

Ho voluto fare la foto con tre maglie diverse, perché ciascuna testimonia di una mia identità: locale, nazionale ed europea.

Ma l’identità più importante era quella da dare alla bicicletta.

Ho ricevuto 45 suggerimenti, in maggioranza via mail.

Confesso che fino all’ultimo in pole position c’era Aquilante (anche nella versione vernacolare Acvilante).

Poi sono andato a cena in un ristorante “italiano”.

E cosa ti trovo sul menù? “Piadina”, anzi, col più classico degli errori “Piadina al proscuitto di Parma”.

L’ho anche provata e in realtà della piadina non aveva molto: era la pasta della pizza passata sulla griglia, con un condimento tipo bruschetta.

Ma l’ho preso come un segno del destino e dunque sono fiero di annunciare che ora la bicicletta si chiama “Piadina al proscuitto”, per gli amici “Piadina”.

Penultimo pensiero per il mio amico Guido Carretta, vecchio compagno di scherzi all’università, che a questo mio periplo ha dedicato, oltre ad una generosa donazione, anche un fumetto, che in una quarantina di tavole satireggia le avventure di DalmonTEX.

Il blog non rende giustizia a questa sua opera, per cui mi riprometto di valorizzarla come merita in futuro.

Last but not least, come diciamo noi americani, ricordo che lo scopo principale del viaggio è quello di raccogliere fondi per una associazione che finanzia e gestisce, inter alia, un ospedale nella zona di Ruvuma, in Tanzania. Questo è il suo sito: www.ruvuma.it/

Ricordo che potete dare un contributo direttamente all’associazione, oppure sul conto speciale che ho aperto a Bruxelles. Coraggio! Mentre io mi riposo, voi avete 10 giorni per fare un ultimo sforzo .

(n.d.a. A luglio 2010 il conto è stato regolarmente chiuso e gli oltre 10.000€ depositati sono stati interamente versati a RUVUMA Onlus, assieme ai nominativi dei donatori).

L’avventura è finita, e il film “l’armata Brancaleone” ce ne dà forse il riassunto migliore, con il coro che intonano i pellegrini in cammino col monaco Zenone verso la Terra Santa:

Longo lo cammino ma grande la meta.

Sanza armatura, sanza paura, 

sanza calzari, sanza denari, 

sanza la brocca, sanza pagnocca, 

sanza la mappa, sanza la pappa.

Senza la pappa forse.

Ma, per fortuna, avevo la Piadina.

Al proscuitto, ovviamente!

Fine del primo episodio

La cerimonia è stata rinviata per pioggia

Detto così sembra impossibile, ma quando è la coda di una tempesta tropicale che vi passa vicino, è consigliabile fare poco gli spiritosi.

E va bene che la cerimonia finale di questi “giochi” prevede il battesimo nell’oceano, però una cosa è bagnarsi i piedi e altra cosa è inzupparsi fino alle ossa.

Visto che non c’è il rischio che gli spettatori perdano i soldi del biglietto, o che l’Eurovisione perda i soldi della pubblicità, ho deciso all’unanimità di rinviare tutto a domattina, quando le previsioni danno un paio d’ore di relativa calma.

Saint Augustine è una destinazione turistica decisamente più carina della media vista finora e ha la particolarità di essere la città più antica degli Stati Uniti, visto che fu fondata nel 1565 da una spedizione spagnola ordinata da re Filippo II, il quale, tanto per gradire, riteneva che la sua Florida (con l’accento sulla “i”) andasse dal Golfo del Messico fin oltre il Canada, a nord, e fino al Mississippi, a ovest.

Obiettivo della spedizione era quello di cacciar via una colonia di Ugonotti, che si erano installati nella Florida attuale e avevano costruito Forte Carolina.

A sorpresa, risultò che i coloni erano meglio armati e più numerosi dei soldati venuti a cacciarli via, per cui, prudentemente, gli spagnoli si acquartierarono in quella che diventerà la città di Saint Augustine.

Al momento dell’attacco delle navi francesi, una tempesta improvvisa (simile a quella di stamattina!) respinse le loro navi verso sud, addirittura fino all’ attuale Daytona Beach, dove dovettero fare una lunga sosta ai box per riparare i danni.

Gli astuti spagnoli approfittarono di questa lunga sosta per attaccare il forte sguarnito e riprendere il controllo dell’intera zona.

Domani conto di fare un giro del quartiere storico, anche per vedere quel poco che rimane di “vecchio”, visto che la città fu rasa al suolo da un attacco inglese nel 1702 e che gli edifici più vecchi risalgono al 18° secolo.

A quell’attacco sopravvisse solo il castello di San Marcos, che vale la pena visitare anche per chi di castelli ne ha già visto una marea.

Infatti, le mura hanno la particolarità di essere state costruite con un materiale chiamato coquina, che è composto fondamentalmente da depositi preistorici di piccole conchiglie e coralli.

Quello che lo rendeva interessante, in un periodo in cui andava di moda cannoneggiare le mura per farle crollare, è la sua incredibile elasticità.

Dopo essere stati fatti asciugare per qualche anno, i blocchi di coquina assemblati formavano delle mura che assorbivano l’urto delle palle sparate dai cannoni, le quali si conficcavano nella struttura muraria senza sfondarla.

Il castello, che in caso di bisogno, come appunto nel 1702, poteva ospitare tutta la popolazione di Saint Augustine, fu una straordinaria realizzazione degli spagnoli.

Costoro erano sbarcati in Florida ancora prima della fondazone di Saint Augustine. All’inizio del 16° secolo, Ponce de Leon, a cui ancor oggi è intitolata una delle vie principali della città, sbarcò, secondo le sue biografie postume, alla guida di una spedizione incaricata di trovare nientemeno che la fonte della giovinezza, di cui si andava parlando, o meglio farneticando, fin dai tempi di Erodoto.

Neanche a dirlo, Ponce de Leon la fontana deve ancora trovarla, e più di un amico toscano ironizzerà sul fatto che il grande esploratore si chiamava Ponce, come loro chiamano la bevanda tipica di Livorno parente stretta del “punch” inglese e del “grogg”.

Comunque, la città di Saint Augustine ha pensato bene di creare un parco e ha battezzato la locale sorgente “Fonte della Giovinezza”.

I turisti pagano per entrare e, soprattutto, per bere alla fonte: almeno distribuisse del ponce… Mah!

Ricordo che anche il mago Copperfield ha sostenuto pubblicamente di aver scoperto una sorgente di acqua che ringiovanisce in un’isola che ha comperato (o qualcuno gli ha comperato a sua insaputa) da qualche parte nei Caraibi.

Dopo l’annuncio, si aspettano (ormai da anni!) le conclusioni degli scienziati.

A proposito di credulità popolare, a Saint Augustine esisterebbe anche una società segreta detta dei “Protettori della fontana della giovinezza”, i cui membri sostengono di sapere dove si trova la fontana e di essere longevissimi per averne bevuto. Non è dato conoscere il numero giornaliero di ponce consumati dai membri della setta.

Ma se il grande Ponce non trovò la fontana della giovinezza, fece comunque un grandissimo regalo alla Florida e alla sua futura economia.

Infatti, lui e qualche altro esploratore coetaneo introdussero nel continente americano un frutto carico di antiossidanti e vitamina C, che aiutò a mantenere giovane e in salute la popolazione della Florida: l’arancia.

In realtà, tutte le navi spagnole erano obbligate a portare semi e piante d’arancio nelle loro spedizioni, come rimedio contro lo scorbuto e altre malattie.

Oggi la Florida è fra i più grandi produttori mondiali di agrumi. Dettaglio: tutta la produzione va all’industria di trasformazione, che ne fa del concentrato; il povero ciclista tapino che si aspetta di trovare succhi freschi e spremute a tutti gli angoli, fa la fine del povero Ponce.

Il motivo è una spia interessante della mentalità di molti americani, che cercano la stabilità del prodotto, la sua assoluta identicità, volta dopo volta. Se uno si presenta con una spremuta di arance rosse, rischia di mandarli in crisi. Il discorso sarebbe lungo, ma è del tutto simile a quello che spiega il successo nei paesi anglosassoni (e non solo) di tutti i vini del Nuovo Mondo: puliti, corretti, non troppo cari, ma soprattutto sempre, irrimediabilmente uguali a sé stessi.

Alla faccia delle regioni, dei tipi di terreno e delle annate, a cui noi europei siamo così attenti.

Un ultimo riferimento spagnolo è a una pianta. In inglese è nota come Spanish moss, letteralmente “muschio spagnolo”. In realtà, non è né muschio né lichene, ma una normalissima pianta che però cresce sugli alberi di alto fusto. Data la forma e il colore, fa pensare che alle querce, ai cipressi, ai pini e in genere agli alberi delle foreste acquitrinose della Florida, sia cresciuta improvvisamente una lunga e folta barba. La leggenda vuole che si tratti dei capelli di una giovane sposa spagnola, tagliati dai Cherokee come avvertimento al marito, affinché non occupasse i loro territori con le sue piantagioni.

E chi si siede sotto una quercia e guarda in alto, vedrà questi folti capelli (nel frattempo divenuti grigi, evidentemente) saltare da un ramo all’altro, protetti da un esercito di maggiolini…

La leggenda è affascinante, ma è, appunto, una leggenda. Io invece ho uno scoop indiscutibile e documentato.

Un giorno, ai margini del sentiero che percorrevo in bicicletta, ho trovato una piccola sorgente. Ne ho bevuto un bicchiere e sono improvvisamente ringiovanito.

Un pezzo alla volta, a cominciare dai capelli.

Assomigliano un po’ al muschio spagnolo, ma adesso almeno sembro il chitarrista Carlos Santana.

O Benetton.

Oddio, guardando bene, non sarà che assomiglio a Briatore?

Ps: Domani, se tutto va bene, battesimo e foto finale. Se non riesco a mettere subito l’ultima puntata sul blog, sarà per il giorno dopo. Infatti è previsto l’arrivo del gruppone di Adventure Cycling: alla sera cenerò con loro e si farà tardi! Avete ancora poche ore per comunicare i suggerimenti per il nome da dare alla bicicletta.

Affrettatevi!

Percorso: G 55 Palatka (FL) to Saint Augustine (FL) 53 km 17/5/2010


Percorso: G 54 Gainesville (FL) to Palatka (FL) 90 km 16/5/2010

Ho perso il conto delle persone che durante questo viaggio hanno rivelato e a volte vantato con commozione le loro origine italiane, più o meno perse nelle nebbie del tempo e nel conteggio delle generazioni.

Solo nell’ultima settimana, dal ligure Chiappini che vende attrezzatura da cacciapesca, ai siciliani Scalia, Russo, Taormina…la lista sarebbe lunghissima.

Ma mettetevi nei miei panni, quando uno si presenta dicendo: “Hi, my name is DeeJay Cravatta!”. Vi viene da rispondergli: “ Sì, e io mi chiamo Aldo, Giovanni e Giacomo”.

E invece è proprio quello che mi è successo una mattina, mentre stavo per lasciare De Funiak Springs, città peraltro molto bella e molto ricca, con un patrimonio storico-architettonico invidiabile di magioni ottocentesche. Dicevo di DeeJay (pronuncia digèi).

Il nome vero è Daniel James, ma va molto di moda usare le iniziali, per cui D.J. Assieme alla moglie, sta girando gli Stati Uniti in bicicletta. L’obiettivo è di rientrare a casa entro ottobre di quest’anno.

Casa, per lui che pure è americano, si trova ormai sulla costa occidentale del Canada, nello stato della British Columbia, al confine con lo Yukon, dove il giovane Paperon de’ Paperoni faceva il cercatore d’oro nel Klondyke. Ma questa è un’altra storia.

Il nonno di Deejay era emigrato da Palermo a New York, con l’inevitabile approdo a Ellis Island, punto d’arrivo di generazioni intere di emigrati da tutto il mondo. Lavorò tutta la vita come cuoco trasmettendo il suo sapere al figlio, che finì per fare il cuoco nell’esercito americano quando questo invase la Sicilia.

Sfruttando le sue conoscenze indirette della Sicilia e soprattutto il dialetto paterno, il padre di DeeJay fu autorizzato dal comando a scambiare ogni giorno una jeep piena di derrate alimentari per le truppe, contro le materie prime fresche che erano necessarie per preparare pranzo e cena alla mensa ufficiali: di sicuro si comanda meglio dopo una pasta con le sarde, piuttosto che dopo una scatoletta di carne in scatola!

Mi ha incuriosito il fatto che da una delle sacche appese alla ruota anteriore della bici di DeeJay spuntava il manico di una mazza da baseball. La spiegazione è stata semplicissima e disarmante: si tratta di una personalissima forma di difesa contro gli attacchi dei cani randagi.

Costo, nove dollari al supermercato. Ho espresso ammirazione, ma, anche se costa un po’ di più, continuo a preferire il mio macchinino non cruento spara-frequenze.

DeeJay mi ha spiegato che dalle sue parti il problema vero dei ciclisti non sono i cani, bensì gli orsi: alcuni viaggiatori su due ruote hanno perso la vita, visto che sullo scatto i plantigradi raggiungono velocità impensabili anche per Cipollini. Mi ha spiegato che per difendersi da attacchi del genere quando gira in bicicletta nelle foreste dello Yukon ha a portata di mano uno shotgun, praticamente un fucile a canne mozze. Normale precauzione o riflesso ancestrale ?

E a proposito di armi, mi viene in mente Dave, il meccanico di Baton Rouge che è venuto a prendere me e la bicicletta dall’albergo ed è stato di una gentilezza sconcertante.

Ho notato però sul suo furgone l’adesivo della NRA (National Rifle Association), la potentissima organizzazione che prona il possesso libero di armi da fuoco in virtù del secondo emendamento della Costituzione.

Nel raccontarmi i lunghi tragitti fatti in bici con o senza la moglie, Dave ha sollevato il tema degli attacchi da parte di animali o umani malintenzionati e, con mio grande stupore, mi ha tranquillamente raccontato che quando parte si porta dietro la pistola.

Giustificazione: “Sono un vecchietto piccolo e indifeso. Se mi attaccano, devo pur difendermi!”.

No comment, ma attenzione a litigare con un ciclista in America: tra mazze, lupare e pistole sembra di avere a che fare con una milizia su due ruote, altro che i bersaglieri!

Ma l’incontro “italiano” più bello l’ho fatto ieri. Nel primo pomeriggio mi sono fermato a visitare un vigneto. Sissignori, perché anche in Florida, nonostante gli acquitrini e gli alligatori, si fa vino.

E il vignaiolo in questione si chiama David DaCasto, italiano di terza generazione.

A differenza di quasi tutti gli italoamericani incontrati finora, Dave è stato in Italia e ha ritrovato le proprie radici.

Sono in Piemonte, più precisamente a Calosso, venti chilometri a sud di Asti, in pieno territorio ad alta vocazione vitivinicola.

DaCasto coltiva il muscadine, che, nonostante il nome, non c’entra niente col Moscato dei nonni. È una varietà autoctona, nota fin dal 1500 e diffusa in tutto l’est degli Stati Uniti. Che produca un vino buono è un’altra storia, anche se il rosso e il rosé degustati sono risultati accettabili. Diciamo che in una degustazione dell’AIS otterrebbero da 60 a 65 punti su 100.

Forse anche per questo motivo, Dave si è dedicato a coltivare un’altra varietà molto più evocativa: la Barbera!

Il risultato è impossibile da paragonare con l’originale, ma è interessante, soprattutto se si considerano i terreni sabbiosi in cui crescono le viti, che è necessario irrigare nonostante l’apparente abbondanza d’acqua in Florida.

A scanso di equivoci, sono ripartito con una bottiglia di Porto della Florida, “famosissimo” vino da meditazione che intendo degustare sulla spiaggia di Saint Augustine mentre rifletterò sugli ultimi due mesi.

Chiudo, spiegando come ho fatto a finire in questo vigneto.

Due ore prima mi ero fermato a mangiare con Karman, assieme a cui faccio gli ultimi giorni di viaggio, in un ristorante consigliato da un ciclista locale, il Blue Water Bay, nel villaggio di Melrose.Con grande sorpresa, nel menù trovo “la coda di alligatore della Florida”. Ovviamente si tratta di animali d’allevamento, ma il cameriere mi consiglia di provare questa specialità locale. La carne è bianca, viene fritta, e al gusto

ricorda una miscela interessante di coniglio e maiale.

Visto che siamo rientrati nella civiltà e il ristorante serve anche alcolici, decido di fare uno strappo alla regola e chiedo un bicchiere di vino. Conversazione:

Emilio: Servite vino al bicchiere?

Cameriere: Certamente

E: E che vino mi consiglia con l’alligatore ? (una domanda del genere non l’avevo mai fatta!)

C: (pensoso) Le suggerisco un bicchiere di Barbera

E: (incredulo) Come ha detto, scusi?

C: (paziente) Barbera, è il tipo di vino!

E: (contento) Benissimo, finalmente un vino italiano

C: (rassegnato) Veramente, è un vino della Florida, il produttore abita a poche miglia da qui!

E: Ah!

Morale della favola: occorrerà adattare il manuale dei sommelier sugli abbinamenti cibo/vino. Barbera della Florida e alligatore sono un connubio perfetto.

E occorrerà sostituire le parole “finto scrittore” nella vecchia canzone di Giorgio Gaber. Nuovo testo:

Si passa la sera scolando barbera

scolando barbera nel trani a gogo

Per fare del colore c’è il finto pittore

con l’alligatore che parlan di sé

tra sé e sé

nel trani a gogo !

Ps: Sono arrivato sull’Atlantico, ma mi vuole un po’ di tempo perché dalle gambe la notizia arrivi alla testa.

Intanto apro la bottiglia di “Porto della Florida” e medito.

Percorso: G 53 High Springs (FL) – Gainesville (FL) 54 km

A me piacciono molto i cani: quelli degli altri, visto che non ho mai avuto la situazione personale o il posto adatto che, secondo me, servono per tenere un animale nelle condizioni ideali.

Se mai fossi venuto ad abitare in Florida, probabilmente sarei stato aiutato dalla società a creare queste condizioni ideali.

Dico questo perché ieri sera, mentre cenavo in una vera istituzione americana, il cosiddetto diner (la nostra tavola calda), mi sono imbattuto in un giornaletto chiamato “Critter” che ha come missione di migliorare la difesa e la qualità di vita degli animali, incoraggiando la “proprietà responsabile” degli stessi e trovando una sistemazione agli animali in difficoltà.

Il giornaletto è pieno di buon senso e di buoni consigli su come, ad esempio, educare il proprio cane a non mordere il prossimo, e promuove una campagna attiva di castrazione al fine di ridurre il numero delle attuali vittime (circa 800.000 all’anno), in maggioranza postini e addetti alla lettura dei contatori (i ciclisti sono colpevolmente dimenticati).

Nove decimi del giornale, però, sono riempiti da spazi pubblicitari che reclamizzano tutta una serie di servizi offerti da privati e società per assicurare il benessere del miglior amico dell’uomo.

E il risultato che si ottiene incrociando le prestazioni offerte è perlomeno sorprendente.

Anzi, posso dire, senza tema di essere smentito, che più di una persona negli Stati Uniti sarebbe ben contenta di essere presa in carico dalla culla alla tomba, come succede a certi bipedi fortunati.

Addirittura non dispiacerebbe neanche a me, che ne avrei anche titolo, visto che quando giocavo a calcio sentivo spesso urlare dagli spalti: “Chi è quel cane?”

Qualche esempio, per far capire cosa intendo dire.

Alloggio: sono disponibili lussuose situazioni in cui Fido può godere di almeno 8 ore di gioco libero al giorno, con scelta fra un grande giardino recintato e locali interni con aria condizionata. Gli animali sono separati per dimensioni e temperamento.

Istruzione: prestigiose scuole insegnano al padrone come farsi ubbidire senza sottoporre il cucciolo a inutili e pericolosi stress, e al cucciolo insegnano l’obbedienza giocosa e le buone maniere.

Sanità: su questo terreno si raggiunge il culmine, che, al confronto, la riforma sanitaria di Obama è uno scherzo.

Il dottor Jeffrey Goldberg offre sia servizio a domicilio che in clinica, e si specializza in terapia con erbe e agopuntura!

Quest’ultima può aiutare il vostro cane (cito dalla pubblicità) nel caso soffra di: “artrite, displasia dell’anca, danni alla spina dorsale o nervosi, patologie muscolari, allergie, asma, problemi alle orecchie o alla pelle, problemi del tratto digestivo, malattie della vescica, insufficienza renale, attacchi di epilessia, malattie cardiache e dolore”. Mi scuso se la terminologia medica non è appropriata, ma il messaggio mi sembra chiaro. I farmacisti, dal canto loro, si impegnano a preparare prodotti ad hoc, con dosaggi alternativi, creme per uso topico, preparati oftalmici e supposte personalizzate!

Cura del corpo: una marea di istituti specializzati offrono servizi personali, che comprendono la pulizia dei denti, il lavaggio con shampoo medicato, l’uso di creme idratanti e (visto che siamo in una zona di sorgenti) i risciacqui con acqua termale profumata!

Interessante che queste cure siano offerte, oltre che ai cani, anche a gatti, conigli e rettili. Sarei curioso di vedere quanti sono quelli che fanno rifare la dentiera al cobra che tengono in appartamento, ma lasciamo perdere.

Visto poi che le due cose più importanti per l’homo floridiensis sembrano essere l’auto e il cane, è giusto che i due vengano puliti assieme.

Ed ecco che al n° 3135 della 42a strada si offre il tutto in uno: mentre passate sotto il tunnel del lavaggio auto, il cane entra in un macchinario parallelo che lo insapona, risciacqua e asciuga. Finito il ciclo, salta di nuovo su in macchina senza nemmeno lasciare le tracce delle zampe sul sedile.

Alimentazione: qui ci si spreca in un turbine di offerte alimentari, affinché il cane mangi tutte cose che, se lasciato solo, non si sognerebbe mai di mangiare. Il massimo, però, lo fa la Domino’s Pizza, una multinazionale che ha ripreso la ricetta della pizza e adesso la ripropone, peggiorata, in tutto il mondo.

Per fare pubblicità al suo (quasi unico) prodotto, si affida alla bella immagine di un barboncino, con lo slogan: “Vi consegniamo a casa il piatto preferito del vostro cane – la pasta per pizza Domino!”.

Ora, non è chiaro se assieme alla pizza vi portino a casa un pizzetta anche per il cane o se il cane debba mangiarsi i resti, ma il messaggio è che se il prodotto è buono per il cane, deve essere buono anche per il suo padrone!

Trasporti: la rivista ricorda giustamente che un animale libero in auto può essere molto pericoloso per l’incolumità dei passeggeri in caso di incidente.

Così, oltre alle obsolete reti di protezione, propone una serie di moderne cinture di sicurezza e imbracature carissime, ma specialmente adattate ai cani.

Terza età: quando non ce la fate più a garantire al cane una vita sociale adeguata e abbondante esercizio fisico, ecco che compare la casa di riposo canina al 2431 della 41a strada: l’animale viene seguito e fatto giocare, e voi l’andate a trovare nel fine settimana. Se siete in vacanza, gli mandate una cartolina.

E quando, nonostante l’agopuntura, la natura fa il suo corso, ecco pronta una bella offerta per la cerimonia funebre, che si assicura essere personalizzata, partecipativa (?) e soprattutto “non confessionale” (in originale non-denominational).

A questo punto mi è venuto un dubbio: ma adesso in America anche i cani sono mormoni, ebrei, cristiani e mussulmani? E forse i cagnacci che mi inseguivano nelle strade di campagna della Luisiana volevano solo discutere le tesi di Lutero? O il dogma dell’infallibilità del Papa?

Mi è capitato di vedere due cani disputarsi un osso, ma mai e poi mai mi sarei immaginato che la traduzione del loro ringhiare fosse:

Cane 1: Molla l’osso, cagnaccio metodista

Cane 2: Mollalo tu, pulcioso pentecostale

Cane 1: Come osi, figlio di luterana che crede nel servo arbitrio?

Cane 2: Io almeno sono un cane “pastore”!

Cane 3: Smettetela di litigare, mormoni che non siete altro e dividetevi l’osso come insegna la nostra eterna guida zen, il Grande Cagnone!

Assieme a tanti dubbi, adesso ho almeno una certezza.

In inglese Grande Cagnone si dice sicuramente “Grand Canyon”.

Ps: domani il blog “riposa”. Ma potete continuare a mandare suggerimenti per il nome con cui battezzare la bicicletta.

O con un commento, o con una mail a emilio.dalmonte@gmail.com

[alert close=”no”]Percorso: G 52 Madison (FL) – High Springs (FL) 119 km[/alert]

Sarò breve, perché anche oggi è stata una giornata pesante sul piano fisico. I termometri che ho incontrato lungo la strada davano dai 90 ai 95 gradi Farenheit, cioè attorno ai 33 – 35 gradi e l’umidità accentua molto l’afa e la sensazione di pesantezza.

Anche se questo blog si trova nella rubrica sportiva de “La Stampa”, confesso che più che una pagina sportiva mi sembra di vivere un percorso di sopravvivenza, ma tant’è.

Ogni giorno, ridendo e scherzando, sto in giro una decina di ore, di cui sette-otto in sella. La media effettiva va raramente oltre le 11 miglia all’ora, anche in pianura, perché bisogna considerare i rallentamenti, i semafori, il carico e la fatica che si sta veramente facendo sentire.

E a proposito di fatica, chissà perché, comincio ad avere le visioni come Giovanna d’Arco, la cui statua dorata ricordo di aver visto in una piazza di New Orleans: solo che le mie sono visioni di Dorando Petri che crolla a un metro dall’arrivo!

Scherzi a parte, se alle ore di bici vera e propria si aggiungono le pause-benzinaio per un breve pranzo e rifornimento di liquidi freschi, si capisce come la giornata passi molto in fretta.

A proposito di liquidi, non mi stancherò di sottolineare l’importanza dell’idratazione quando si affronta una prova di questo genere, come del resto sanno i miei amici che si cimentano nelle maratone podistiche.

Ormai ci sono alcuni classici a cui ricorro regolarmente e di cui non esito a fare i nomi: dopotutto, la pubblicità è stata elevata a modello di vita in questo paese, dove, oltre ai prodotti normali, si reclamizzano anche studi d’avvocato, cliniche private e chiese!

Il primo prodotto è il Gatorade, o il suo clone concorrente Powerade, in bottiglia o in polvere. Non me ne sono ancora stancato e se non ho mai avuto crampi, è probabile che sia in parte merito loro.

Poi c’è il mitico Frappuccino della Starbucks, la multinazionale del caffè più o meno all’italiana, che ha inventato alcuni prodotti nuovi a base di caffè, fra cui appunto questo. Se volessi essere cattivo, direi che è un caffellatte freddo in bottiglia, ma resta il fatto che è buono, dà una sferzatina d’energia al ciclista stanco e si trova già pronto in quasi tutti i negozi.

Poi c’è il V8. Una volta era una spremuta di verdure, adesso ci hanno aggiunto la frutta e il risultato è delizioso, oltre che rinfrescante.

A volte mi ricordo di comperare una bottiglia di acqua, ma quella frizzante praticamente non esiste, poi noto con disappunto che quella liscia costa più della Coca o della Pepsi, non è mai offerta dai distributori di bevande sfuse nei locali per fast food e, per di più, quando la si trova in bottiglia è acqua distillata, quella che noi usiamo nel ferro da stiro, per capirci.

Da quando è arrivato il gran caldo, una via d’uscita interessante è stata quella di riempire le borracce a metà con ghiaccio, visto che da qualsiasi parte si trovano le macchine che distribuiscono bevande gassate che lo sparano in cubetti bell’e pronti.

Resta da rispondere alla domanda più importante, quella che in molti si pongono, ma che pochi hanno il coraggio di farmi: “Si può stare in sella due mesi senza usare la Pasta di Fissan?“

La risposta, come spesso succede, è sì e no, ma se si sceglie la prima, bisogna anche scegliere il tipo di sedere con cui ci si vuole presentare all’arrivo in spiaggia sull’Atlantico.

Le opzioni sono:

1 – babbuino dello zoo di San Diego

2 – Scimmia urlatrice dello zoo di El Paso (urlerei anch’io se fossi ridotto così)

3 – Orangotango di Sumatra dello zoo di Dallas

4 – Bonobo (o scimpanzé nano) dello zoo di Miami.

 

Ma vorrei chiudere accogliendo con piacere la proposta di Arbaio di dare un nome alla bicicletta.

Effettivamente, quello che è successo alla partenza, sulla spiaggia di San Diego, è il primo caso di un battesimo che si è concluso senza che fosse deciso il nome. Mandatemi dunque i vostri suggerimenti, sul blog o all’indirizzo di posta elettronica (emilio.dalmonte@gmail.com) perché si avvicina il giorno del secondo battesimo, stavolta nell’Atlantico.

Ormai l’arrivo a Saint Augustine è previsto per domenica, a meno di imprevisti e la cerimonia si farà domenica o lunedì.

Una volta si diceva “alla presenza delle autorità”.

In questo caso sarà alla presenza di nessuno, salvo quattro abitanti a spasso col cane, che una volta ogni tanto vedono un matto vestito a colori che chiede loro di scattare una fotografia mentre lui fa il bagno con la bicicletta nell’oceano: ancora si chiedono il perché.

Ma stavolta un nome bisogna pur darglielo a questa bicicletta color caffellatte con cui vivo da due mesi, letteralmente per 24 ore al giorno, visto che nei motel te la lasciano mettere in camera.

Per di più, posso dire che su questa bici, e più precisamente su questa impareggiabile sella di cuoio Brooks, mi sono fatto un… così.

Ma in qualche raro caso la pubblicità serve.

Difatti, la pasta di Fissan è la prima cosa che ho messo in valigia.

[alert close=”no”]Percorso: G 51 Tallahassee (FL) – Madison (FL) 108 km[/alert]

Secondo USA Today, uno dei pochi quotidiani nazionali che ogni tanto si trova in vendita in qualche distributore automatico, tra il 2008 e il 2009 oltre 37 milioni di americani (il 12,5% della popolazione) hanno cambiato indirizzo. Questo vuol dire che, teoricamente, nel giro dei prossimi sei anni tutta la popolazione degli Stati Uniti avrà traslocato.

In realtà le cose non stanno proprio così. Molti rimarranno tranquilli nelle loro case, ma una buona percentuale di cittadini traslocherà varie volte.

E perché dovrei traslocare, si chiede l’italiano medio, bamboccione o presunto tale, che sta benissimo a casa propria,con i nonni al piano di sotto che gli fanno gratis da babysitter? In America, evidentemente, si ragiona in un altro modo.

Gli esperti di demografia e soprattutto gli economisti non sono ancora soddisfatti della percentuale di traslochi a cui si è arrivati l’anno scorso e si lamentano perché, testualmente, siamo ai valori minimi della mobilità, che è l’essenza stessa del mercato del lavoro ed è importante per i giovani!

Addirittura è considerato strano che il 67% di tutti i traslochi sia avvenuto all’interno della stessa contea (cioè all’interno di una nostra provincia), il 17% verso un’altra contea e “soltanto” il 12% verso un altro stato dell’Unione.

E chi ha traslocato? Secondo il Census Bureau, cioè l’ufficio governativo che analizza i dati demografici, soprattutto chi ha avuto meno accesso all’istruzione e possiede meno qualifiche professionali.

Nel dettaglio, chi ha traslocato di più sono i Neri, gli Ispanici e gli Asiatici. Guarda guarda, il fatto mi ricorda i termini di un’equazione che mi ero permesso di fare alcuni giorni fa e che metteva in rapporto l’obesità con la mancanza di istruzione…

Comunque, quello che fa riflettere un europeo è la lettura che di questi dati viene fatta in America. L’opinione prevalente è che è importante che la gente si muova (cioè traslochi) verso le nuove opportunità, perché questa è la pietra angolare della nostra economia, fondata sullo sviluppo di nuove idee.

Tradotto in italiano del 21° secolo, questa si chiama non tanto mobilità, che è giusta e necessaria, ma flessibilità all’ennesima potenza. Qui è Maometto che va alla montagna, nella misura in cui i posti di lavoro si spostano e la gente si muove (cioè trasloca) per andarli a ritrovare. Mi fermo qua, perché non faccio il sociologo di professione e mi guardo bene dal trarre conclusioni affrettate: mi limito a mettere sul tavolo questi dati, per permettere ad ognuno di dare una sua interpretazione.

Il motivo per cui parlo di questa storia è molto più semplice. Infatti mi permette di capire meglio un fenomeno che da due mesi a questa parte ho osservato con allarmante frequenza sulle strade che ho percorso in bicicletta: il trasporto delle case. Detta così sembra una strampaleria, ma provate voi ad essere fermati dalla polizia dieci volte in un solo giorno su una statale, perché nell’altro senso arriva una fila di autoarticolati che trasportano ognuno una mezza casa, e mi direte se la cosa non vi colpisce!

Ho chiesto conferma ai miei più o meno regolari compagni di traversata, e l’opinione comune è che negli stati del sud che abbiamo attraversato circa un terzo delle case che si vedono sono cosiddette “case mobili”. In poche parole, sono case prefabbricate che vengono assemblate in fabbrica e successivamente trasportate dove il proprietario desidera installarsi. Esiste il modello semplice e quello doppio, per cui il trasporto può richiedere uno o due camion, a seconda.

Hanno l’immenso vantaggio di costare poco, almeno secondo le pubblicità che partono dagli 80.000 dollari circa. Un altro grande vantaggio è la portabilità, e qui mi ricollego al discorso dei traslochi legati al posto di lavoro.

La fabbrica chiude in California perché le tasse sono troppo alte e si sposta in Florida? Nessun problema, l’operaio “medio” fa caricare la sua bella casina di metallo e plastica su un TIR (o due se la casa è doppia) e la fa depositare nello stato di destinazione in un apposito parco per case mobili, che diventa il suo nuovo quartiere. Pochi giorni e il trasloco di una famiglia è fatto.

Il basso costo della struttura ha anche il vantaggio ulteriore che quando, diciamo dopo un 10-15 anni, la casa comincia a cadere a pezzi e il tetto ad arrugginire, non pochi proprietari se ne disfano, il che spiega il numero impressionante di carcasse abbandonate che si vedono soprattutto nelle zone rurali. Un’alternativa è quella di rivenderle in tempo, anche se il deprezzamento è altissimo. Un altro fattore che ha favorito il boom delle case mobili è il fatto che per anni sono state tassate come veicoli, e non come (è il caso di dirlo) immobili. Ma abitare in case del genere ha anche qualche controindicazione. La prima è di carattere estetico, dato che per i canoni di un europeo esse vanno dal brutto all’orribile, ma questo per gli americani è un dettaglio trascurabile.

Più grave è il fatto che sono molto più fragili di una casa vera, e visto che quaggiù i tornado ci sono sul serio, ogni volta che ne arriva uno fa una strage. Il tetto, mi diceva proprio oggi un operaio che ne stava montando uno, è fatto di lamiera galvanizzata di spessore 26 gauge, che vuol dire mezzo millimetro! E non possono dargli nemmeno lo spiovente necessario, altrimenti quando le trasportano in camion non passerebbero sotto i ponti dell’autostrada.

Di solito, queste case o sono piazzate su una piattaforma di cemento, o sono appoggiate ad una serie di pilastri più o meno alti, per proteggerle dal pericolo di inondazioni. Questa protezione funziona fino ad un certo punto. La settimana scorsa a Nashville è caduto quasi un mezzo metro di pioggia in dodici ore e il risultato di queste precipitazioni mai viste è stata un’inondazione pure mai vista prima.

Tutte le tv hanno trasmesso le immagini spettacolari, e tremende allo stesso tempo, di una casa mobile adibita a scuola, che navigava allegramente sospinta dalla corrente e faceva a gara con automobili, tronchi, armadi, tetti solitari e oggetti vari in libertà.

Fra i concorrenti di questa gara in stile Mad Max, anche un bel camion galleggiante con il pianale, che magari era servito proprio per trasportare quella casa-scuola.

Era quello che noi profani chiameremmo un TIR.

Trasporto Immobili Residenziali.

[alert close=”no”]Percorso: G 50 Marianna (FL) – Tallahassee (FL) 111 km[/alert]

Da non so quanti anni ormai, la vita della maggioranza degli europei, che si trovino nella capitale dell’Europa o in una ridente cittadina della Romagna scelta a caso, è caratterizzata da una parola: riciclaggio.

Io riciclo la carta, la plastica, il metallo, le pile usate e gli elettrodomestici rotti, e pago una tassa di qualche euro ogni volta che acquisto una macchina che funziona a corrente o a batteria.

Ebbene, in quasi due mesi di Stati Uniti a cavallo di una bicicletta non sono riuscito a riciclare niente. Zero. Nada. Nothing!

A onor del vero, il mio amico e concorrente al posto di governatore della California, Arnold Schwarzenegger, ha fatto molto per l’ambiente, ad esempio imponendo leggi statali sulle emissioni degli autoveicoli che sono più rigide di quelle federali, e che sono state adottate anche da altri stati, ad esempio New York e New Jersey, preoccupati di non trasformarsi in camere a gas. Diamo quindi il beneficio d’inventario all’amministrazione di Terminator/Governator e limitiamoci agli altri sette stati che ho toccato nei miei ormai due mesi di viaggio.

Ogni mattina ho fatto colazione o in un motel, o in un cosiddetto diner (un locale che offre colazione, pranzo e cena), o in una stazione di servizio, o ancora in uno degli infiniti locali sempre presenti che servono fast-food e hanno un menù speciale per la mattina. Cominciamo dal motel, precisando che anche gli alberghi di categoria superiore seguono lo stesso modello. E qual è il modello? Quello del self-service, visto che il personale ha l’assurda pretesa di essere retribuito, quindi è meglio limitarne l’uso.

Allora, per i cereali si prende una tazza in polistirolo, un cucchiaio in plastica e un cartoncino di latte da un quarto. Per il pane tostato si usa un piatto in plastica o polistirolo, un coltello in plastica e vari piccoli contenitori monodose di marmellata. Dato che il ciclista ha appetito, si passa ai dolcetti, imballati nel cellophane e, nei casi fortunati, alla frutta, cioè mele e banane.

Nei casi extra-lusso la frutta è sotto forma di macedonia e dunque richiede un altro piattino di polistirolo. Ci si serve il caffè (caffè?) in un bicchiere di cartone plastificato o polistirolo, e il succo di frutta pure. Finita l’abbuffata, tutti i piatti, piattini, tazze e bucce vengono opportunamente fatti scomparire nello stesso sacco.

L’alternativa del diner, del benzinaio o del “fast-food” si presenta in maniera sostanzialmente identica. C’è un vassoio, che perlomeno viene recuperato, con foglio di carta che lo ricopre. La colazione è imballata in un contenitore termico di polistirolo, il caffè (caffè?) nel solito bicchierone di cartone plastificato, e viene aggiunta una busta di zucchero, una vaschetta di latte, due vaschette di margarina, una vaschetta di sciroppo d’acero, due vaschette di marmellata, una busta con una frittella calda di cereali e posate in plastica imballate nel cellophane. Finito il lauto pasto, si butta tutto nel bidone, meno il vassoio.

La routine alimentare di questi posti è esattamente la stessa, mattina, mezzogiorno e sera e non sono in grado di dire quanti milioni di pasti vengano serviti ogni giorno a queste condizioni. So solo che il riciclaggio non esiste, o se esiste è nascosto molto ma molto bene.

Nove volte su dieci, l’americano medio che ho visto io negli stati del sud esce da un qualunque locale con qualcosa in mano, in genere un contenitore termico per cibi, un bicchierone di caffè (caffè?) o di equivalente-coca che consumerà in macchina, o ancora con il mitico brown paper bag, il sacchetto di carta marrone che lo qualifica come un beone depravato e un pericolo sociale, visto che contiene un barattolo di birra.

Se va bene getterà il tutto nel primo bidone che incontra, se va male getterà il tutto dal finestrino.

Io non ho mai visto così tanti rifiuti nei fossi e sui bordi della strada come da quando viaggio qui in America. Un caso? Non credo proprio. Non sono l’unico a rimanere scandalizzato dalla totale incapacità della gente di pensare a riciclare i propri rifiuti.

Nel gruppo di ciclisti organizzati da Adventure Cycling ci sono vari californiani, nuovayorkesi e in genere americani sensibili a questa problematica. Varie volte si sono preoccupati di chiedere ai gestori come fare a riciclare e la risposta è sempre stata una scrollatina di spalle: “Qui non si ricicla!”. L’unica volta che mi è capitato di vedere qualcuno prendere veramente sul serio questa problematica è stato ad Austin, Texas.

Proprio davanti al mio motel c’era un maxi contenitore di rifiuti, e un uomo vestito molto dimessamente, probabilmente un senzatetto, era tutto intento a recuperare i barattoli di birra che trovava.

Gli ho portato i miei barattoli della sera prima e mi sono fermato a fare due chiacchiere e una foto. Mi ha confermato che ogni giorno recupera tutti i barattoli che può, e li consegna ad un centro raccolta che è sulla linea dell’autobus. Tutti i suoi “amici” fanno la stessa cosa.

Era un racconto semplice, di normalissima sopravvivenza. Quello che lo ha reso speciale è stata la risposta alla mia domanda.

Gli ho chiesto: “Ma riesci a guadagnarci abbastanza da vivere?”. Risposta: “Negli ultimi tempi non va molto bene. La quotazione dell’alluminio è calata di brutto!”.

Dentro di me ho riso: mi aspettavo tutto fuorché quella risposta. È proprio vero che l’andamento della Borsa riguarda tutti noi, e non solo per i fondi pensione .

Per farla breve, la situazione in Florida non è a prima vista diversa da quella del resto del sud degli Stati Uniti. Ma forse qui una speranza c’è.

Il trasformismo è definito nel lessico politico di tutto il mondo come la capacità di assumere repentinamente posizioni differenti e/o alternative a quella immediatamente precedente. Fra i simonimi si citano: camaleontismo, gattopardismo e, ultimamente, mastellismo.

Ora, il governatore dello stato della Florida è Charlie Crist, repubblicano. È molto popolare, ma il partito non vuole rieleggerlo. Allora, con un’operazione di magnifico trasformismo (vedi definizione), sta pensando di ripresentarsi come candidato del partito democratico.

Bravo, dico io, ma sappia che sulle questioni ambientali il popolo democratico gli chiederà di essere perlomeno all’altezza del suo collega governatore della California, indipendentemente dal fatto che sia io o Schwarzenegger.

Intanto, ho già fatto un inciucio con il Commissario all’agricoltura e alla difesa dei consumatori della Florida. Si chiama Charles Bronson (scusate se è poco!) e siamo d’accordo che se il governatore della Florida vuol essere rieletto, farà bene a impegnarsi a favore del riciclaggio. Altrimenti sarà dura per quel povero Crist.

Ps: È cambiato il fuso e io sono un po’ fuso. Se domani non trovo il tempo di scrivere, non arrabbiatevi .

Ppss: fa un caldo terribile e afoso e l’accesso internet nei motel è una variabile impazzita. Stasera ho passato un’ora al telefono con un help desk situato a Bangalore, India. Quando si dice la globalizzazione!

[alert close=”no”]Percorso: G 49 – De Funiak (FL) – Marianna (FL) 93 km[/alert]

Ma dopo averci pedalato per tre giorni, si può sapere com’è questa Florida? La prima reazione è di rispondere che è in tutto e per tutto identica ai territori in cui mi muovo da quando ho lasciato il Texas: campi, prati verdi, foreste di conifere e infine acqua, tanta acqua, che si tratti di paludi, stagni, fiumi, laghi o semplici rigagnoli.

Tutto bellissimo, per carità, ma nell’insieme la sensazione dominante è quella di una certa delusione, anche se spiegarla non mi è ancora facile. Dopo averci riflettuto un po’, la soluzione potrebbe essere semplice.

Durante i primi due terzi del viaggio ho avuto la nettissima sensazione (o forse suggestione?) di attraversare il mito, anzi una serie di miti.

Il solo nominare la California evoca in ciascuno di noi una miriade di ricordi personali che ovviamente variano a seconda dell’età e delle esperienze, ma che sono comunque legati ad avvenimenti e personaggi difficili da ignorare: la costa, Big Sur, il movimento pacifista ai tempi del Vietnam, Kerouac, poeti del calibro di Ferlinghetti, decine di musicisti, Hollywood, Reagan, i Los Angeles Lakers, San Francisco, e ognuno potrebbe completare la propria personalissima lista.

I tre stati successivi, Nuovo Messico, Arizona e Texas richiamano, penso per la maggioranza di noi, l’epopea del West, anche se ci è stata proposta per decenni nella sua forma più idealizzata dai film americani, che solo negli ultimi tempi hanno corretto il tiro, dandoci una lettura storicamente più equilibrata.

Ma il bello di questi stati è che il West lo senti e lo vedi ancora, e non parlo delle città-trappola con le facciate dei saloon di cartongesso. Parlo di una combinazione unica di paesaggi e persone. I primi sono durissimi, primitivi, a prima vista inospitali, con i loro deserti, i canyon, i letti secchi di fiumi che un temporale rianima in pochi minuti, i massi in bilico in cima alle colline a volte aride e a volte coperte di fiori: terreni ideali per un agguato, e quante volte ho fantasticato di vedere una diligenza o una fila di guerrieri comparire dal nulla dietro la curva…

E poi la gente, i discendenti di coloro (bianchi, messicani o nativi, vincitori o perdenti) che in questo ambiente spesso inospitale hanno voluto cercare fortuna finendo magari rovinati, hanno preso in mano la legge finendo per lasciarci la pelle, o hanno difeso contro tutto e contro tutti i frutti di anni di privazioni e lavoro.

È lo spirito della frontiera che si sente aleggiare ancora da queste parti, è un qualcosa di impalpabile eppure così presente, è quella volontà fatta di testardaggine, spirito di sacrificio e fede incrollabile nel miglioramento della propria situazione.

È questa, per come l’ho sentita io, la chiave dell’individualismo pragmatico, egoista e isolazionista di “questi” americani, ed è solo così che spiego certe posizioni che ad un europeo come me, imbevuto di “stato”, di “sociale” e di “collettivo”, risultano incomprensibili.

Ebbene, dal momento in cui sono entrato in Luisiana è cambiato tutto: il paesaggio, improvvisamente dominato dall’abbondanza d’acqua, e la gente, molto più eterogenea per atteggiamento e origine, è nell’insieme meno accogliente, meno interessata, con punte di chiusura e di ignorante arroganza da lasciare stupefatti.

Su quest’ultimo punto ho già avuto modo di esprimermi, ma ci torno per un attimo.

Ieri sono arrivato a Milton nel primo pomeriggio e mi sono fermato ad ammirare il monumento (l’ennesimo) ai caduti di tutte le guerre. Una grande lapide di marmo nero esalta l’America come paladino della libertà, mettendo nello stesso sacco il Vietnam, la seconda guerra mondiale, il bombardamento della Libia e la fallita invasione della Baia dei Porci.

Ci sarebbe da discutere non poco su questa presentazione, ma non è di questo che volevo parlare.

A prendere il sole su una panchina c’erano due ragazzi del paese, Amanda e Alex, con cui mi sono intrattenuto a lungo. Mi hanno spiegato che, per capire come va la vita a Milton, occorre guardare l’atlante: ufficialmente siamo in Florida, ma scherzosamente la zona viene chiamata LA (come le iniziali di Los Angeles), dove LA sta per “Lower Alabama”, l’Alabama del Sud.

Per vivere qui occorre essere “free, white and religious”, dove “free” sta per maggiorenne, “white” sta per bianco e “religious” sta per fondamentalista.

Fino a due anni fa c’era il divieto di vendita di alcolici, il teatro è chiuso, non ci sono librerie.

Amanda ha fatto due anni di università, non è riuscita ad avere una borsa per continuare e adesso, se non trova un lavoro, addio studi: già, perché retta e alloggio all’università statale sono dell’ordine di 15.000 dollari. A trimestre!

Poi ci sarebbe anche da vivere.

È questa dunque la Florida? Probabilmente no; siamo all’estremità occidentale, in piena cintura della Bibbia, lontani dalla Florida della coltivazione degli agrumi, lontani dalla capitale, da Miami, dalla diaspora cubana e dalle spiagge esclusive per turisti danarosi in cerca di sole fuori stagione.

Giudizio sospeso, dunque, ma una prima constatazione la faccio, per “vestire” un po’ quella delusione di cui parlavo all’inizio: sarà anche la Florida, ma se nessuno me lo avesse detto, non lo avrei mai saputo, nel senso che avrei potuto trovarmi da qualsiasi altra parte nel mondo.

Le foreste di conifere non sono diverse da quelle del Canada, della Germania, delle Ardenne, della Finlandia.

E nemmeno dalla pineta di Cervia.

Con l’aggravante che qui non c’è un bar dove guardarsi la finale di Champions League!

[alert close=”no”]Percorso: G 47 Pensacola (FL) – Milton (FL) 43 km[/alert]

[alert close=”no”]Percorso: G 48 Milton (FL) – De Funiak Springs (FL) 116 km[/alert]

… un italiano vero ?

Secondo il censimento del 2006, gli italo-americani sono il quinto gruppo etnico degli Stati Uniti. Il loro numero è stimato a 17,8 milioni di persone, ovvero 6% della popolazione.

Prima di partire avevo fatto qualche ricerca sulla comunità italo-americana di San Diego, ma avevo deciso di non approfondire questa dimensione del mio viaggio. Ebbene, per alcuni giorni mi sono ritrovato, senza rendermene conto, al centro dell’emigrazione italiana nel sud degli Stati Uniti, che si è concentrata soprattutto in Luisiana.

Tutto è stato molto casuale. Tornando verso la macchina durante il giorno di riposo a New Orleans, mi sono imbattuto in un’opera architettonica insolita, chiamata Piazza d’Italia. Pensavo ad un resto di qualche manifestazione culturale o alimentare, e invece ho scoperto trattarsi di un monumento in stile post-modernista eretto dall’architetto Charles Moore, che dal 1978 rende omaggio allo speciale contributo che la comunità italiana ha dato allo sviluppo di New Orleans.

È un punto d’incontro della comunità, e serve da sfondo all’altare votivo che ogni anno viene eretto in occasione della festa di S. Giuseppe, uno dei santi più venerati in Sicilia. E sono infatti siciliani d’origine quasi tutti gli italo-americani di New Orleans e della Luisiana. Basta dare un’occhiata alle pagine bianche di qualsiasi città dello stato e si troveranno lunghe file di Alessi, Anzalone, Genovese, Levatino, Miceli, Pecoraro, Sinagra, Russo, Zabbia, ecc. Sono perlopiù i discendenti di terza o quarta generazione di quei siciliani che presero la decisione di emigrare nel corso del 19° secolo in cerca di un destino migliore.

Cominciarono facendo quello che sapevano fare meglio, cioè lavorare la terra, dapprima prendendo il posto degli schiavi liberati, poi acquisendo man mano terreni e lanciando la coltura delle fragole, fino al punto da trasformare la Luisiana nel maggiore stato produttore; seguirono le attività artigianali tradizionali e la ristorazione.

Dal 1850 al 1870 New Orleans poté vantare un numero di abitanti nati in Italia maggiore di qualsiasi altra città negli Stati Uniti, New York compresa.

In risposta a chi mi chiedeva notizie degli italiani che combatterono nelle file dei Confederati durante la Guerra Civile, posso dire che, effettivamente, nel 1862 vennero create tre Brigate Europee, composte in gran parte da persone non ancora naturalizzate, che vennero chiamate a difendere la città in assenza dell’esercito regolare, inviato a contrastare l’avanzata dei “nordisti”. In realtà questi soldati improvvisati si occuparono soprattutto di mantenere l’ordine a New Orleans, sia prima sia dopo la resa all’esercito federale.

Il Battaglione delle Guardie Italiane, al comando del maggiore Della Valle, faceva parte del 6° Reggimento ed era composto da circa 500 uomini. Gli archivi conservano ancora la lista di 341 dei loro nomi.

L’ emigrazione italiana in Luisiana è stata tutto fuorché facile. Razzismo, pregiudizi e discriminazione sono stati all’ordine del giorno per decenni. Il culmine fu il linciaggio di 11 italiani a New Orleans nel 1892. Tutto cominciò due anni prima, quando il capo della polizia di New Orleans, David Hennessy, venne assassinato.

Dopo l’arresto di centinaia di persone, la lista dei sospetti venne ridotta a 19 siciliani, ritenuti affiliati alla “Mano Nera”, come era conosciuta la mafia all’epoca. Ma i primi processi scagionarono alcuni imputati e questo scatenò la reazione popolare.

La prigione venne presa d’assalto e 11 persone, alcune ancora in attesa di processo, vennero linciate. Il governo americano, a mo’ di riparazione, versò 25.000 dollari alle autorità italiane. Alcuni anni fa questa vicenda venne ripresa nel film “Vendetta”.

Ho anche ritrovato un articolo negli archivi del New York Times in cui si dà conto del linciaggio di altri cinque italiani (tre naturalizzati) nel 1899. Questo per dire che episodi simili si sono verificati per anni e non solo in Luisiana, bensì in tutte le aree di grande emigrazione di connazionali.

Lasciando da parte questi aspetti tristi e macabri, si deve anche ricordare l’apporto che gli italiani diedero allo sviluppo della musica, che tanta parte ha nella cultura di questi luoghi.

È un fatto che le radici del jazz si ritrovano attorno a Congo Square, a New Orleans, dove gli schiavi si ritrovavano per suonare e cantare ogni domenica, giorno, per così dire, di libertà.

Ma è anche vero che gli “Original Dixieland Jazz Band” di Nick La Rocca, noti come i “creatori del jazz” a inizio del ventesimo secolo, vantavano ben due musicisti di origine italiana su cinque.

Da notare ancora che negli stessi anni il “Quartiere Francese” era noto come la “Piccola Palermo”.

L’incontro con gli italo-americani di oggi è stato, come dicevo, casuale. Mi sono fermato nella città di Amite per fare un po’ di spese. Appena ho detto alla cassiera che ero italiano è saltato fuori che il proprietario del negozio di alimentari è Nicola Ardillo, siciliano di terza generazione.

A quel punto è stato quasi obbligatorio fermarmi una mezzoretta nel retrobottega a parlare con lui, sua cugina Giusi e con Maria, la vera matriarca della famiglia che, ferma nella sua sedia, teneva il filo della discussione.

È stata un’esperienza molto intensa, a suo modo commovente.

Nessuno dei tre parla veramente italiano: si spiegano in un americano tutto loro, con l’accento tipico dello stereotipo dell’ emigrato italiano, e allo stesso tempo conoscono il dialetto del villaggio a sud di Palermo da cui provenivano i loro nonni.

Nessuno è mai stato in Italia, e ammettono che ormai non ci andranno più, a causa degli acciacchi della vecchiaia.

Eppure vanno fieri di questa loro origine e parlano di sé, dei loro vicini e amici come “italiani”. A Independence, la cittadina più vicina, gli “italiani” sono addirittura la maggioranza degli abitanti, hanno eletto il sindaco e litigano su come e dove organizzare l’altare di san Giuseppe!

Peccato che la settimana di festeggiamenti abbia avuto luogo in aprile; penso di aver perso qualcosa di irripetibile e, purtroppo, destinato a scomparire.

La mattina dopo, a Franklinton, mentre facevo colazione da McDonald (ebbene sì, ho fatto anche questo), stessa scena.

Brittany, la giovane che mi serve il vassoio, nota la maglia azzurra, mi chiede da dove vengo e sorridendo mi dice: “I am Italian too!”, cioè “anch’io sono italiana”. Viene a sedersi al tavolo, mi racconta che, pur detestandolo, lavora in quel posto per guadagnare un po’ di soldi. Di cognome fa Corona, ma non ha idea di dove fosse originaria la famiglia del bisnonno emigrato. Di italiano non parla una parola, dell’Italia non sa praticamente niente.Il suo sogno più grande? Andare in Italia.

Brittany è giovane e, a differenza degli Ardillo, ce la può fare a realizzare il suo sogno.

Spero solo che il destino non sia crudele con lei. Potrebbe scoprire di avere un lontano parente fotografo che di nome fa Fabrizio. In quel caso, sarei io il primo a consigliarle di realizzare il sogno americano di tanti: cambiare nome.

Brittany Crown sarebbe perfetto!

[alert close=”no”]Percorso: G 46 Dauphin Island (AL) – Pensacola (FL) 108 km[/alert]

L’espressione “che culo!”, con la sua dose omeopatica di volgarità, è ormai entrata nel lessico comune e può essere usata in senso figurato o in senso letterale.

Facciamo un paio di esempi.

Stamattina, nel negozio di bici di Orange Beach ho di nuovo incontrato Karman, che si è finalmente deciso a cambiare ambedue gli pneumatici, visto che da quando è partito da San Diego ha avuto 21 forature.

Riflettendo sul fatto che, toccando ferro, finora non ho forato una sola volta, mi sono detto: “Che culo che ho avuto”!

Esiste una spiegazione per questo numero assurdo di incidenti: le corsie d’emergenza e le piste ciclabili delle strade americane (spesso le due cose coincidono) sono letteralmente ricoperte di detriti di tutti i tipi. Quelli più insidiosi sono le carcasse degli pneumatici radiali abbandonati dai camion, che li usano finché si sfasciano. I pezzi di carcassa sono fatti di gomma e di fasci di filo d’acciaio: questi ultimi possono facilmente penetrare le coperture di una bicicletta ed è difficilissimo trovarli e soprattutto estrarli completamente. Il risultato sono forature a ripetizione e un deciso ingrossamento del fegato.

Ma parlavo di “culo”. A parte il caso delle forature, quando si gira in questa parte di America l’espressione “che culo” deve per forza essere letta in maniera letterale, nel senso che il numero di persone obese che si incontra è assolutamente fuori dalla norma.

E quando dico “obese” intendo veramente obese, non semplicemente sovrappeso.

A titolo di illustrazione, tutte le foto che pubblico sono state scattate, in diversi ambienti, nella sola giornata di oggi!

Sul traghetto con cui ho lasciato Dauphin Island stamane ho fatto la conoscenza di Tommy e Janet, una coppia in vacanza che abita nel nord dello stato del Mississippi.

Il copione è sempre quello, nel senso che mi hanno chiesto da dove venivo con la bici ecc. ecc. Tommy, con notevole autoironia, ammette che avrebbe difficoltà a fare quello che sto facendo e conclude: “I guess I should eat a bit less”, che al cambio vuol dire più o meno “penso che dovrei mangiare un filino di meno”.

Tommy, per sua ammissione, non è malato; semplicemente mangia schifezze da una vita e si è ridotto a camminare con le grucce. Janet lo segue a distanza di sicurezza, ma non demorde. Comunque, e lo dico sapendo di suscitare l’invidia di tutti i maschi che leggono il blog, stamattina ha chiesto di fare una foto con me !

 

Battute a parte, il problema dell’obesità viene a galla regolarmente nelle trasmissioni televisive, ma nessuno ne discute le cause. Cioè nessuno, per evidenti motivi commerciali e per paura di conseguenze legali, ha il coraggio di dire che il modello alimentare a cui si affida una gran parte dei cittadini è semplicemente deleterio.

Qui non si diventa obesi mangiando bene, che sarebbe non solo una giustificazione, ma anche una consolazione importante. Qui si mangia in maniera noiosa, affrettata e soprattutto dannosa.

Da due mesi anch’io mi dedico, in mancanza di alternative valide, a questa attività che gli americani hanno così ben definito: il casual eating; quindi non solo ci si veste “casual”, ma si mangia pure “casual”, cioè ci si ingozza con quel che capita, a patto che sia poco costoso ma molto gustoso. E questo fa rima con scarsa qualità e grasso.

In un certo senso io posso permettermelo, quando il mio cardiofrequenzimetro mi registra giornate da 6.000 calorie consumate, ma in condizioni normali finirei come il protagonista di “Supersize me”, il film documentario di quel tipo che, dopo un mese intero passato a mangiare hamburger e simili, ha preso 11 chili di peso e si è ritrovato con tutti i valori sballati, a cominciare da un +13% di massa grassa.

A titolo di curiosità, la McDonald, per replicare al documentario, ha introdotto alcune insalate nel suo menù. Della serie “era ora”! Quello che trovo interessante è che il numero di persone veramente obese è andato aumentando man mano che dalla California pedalavo verso est. L’esplosione c’è stata a partire dal Texas orientale e si è amplificata in questi ultimi giorni, con una marcata propensione all’obesità fra le persone di colore.

Certo, a partire dalla Luisiana sui menù hanno fatto la loro comparsa pesce e frutti di mare: peccato che te li propongano quasi sempre fritti!

Io non sono certo un nutrizionista e non ho dati statistici che confermino quello che penso, ma un’idea me la sono fatta, anzi un’equazione: povertà + scarsa istruzione = obesità.

Sbaglierò, ma aspetto una dimostrazione del contrario. Per la cronaca, oggi ho attraversato la frontiera con la Florida, l’ottavo e ultimo stato del viaggio. Mississippi e Alabama sono passati troppo velocemente, non ho avuto il tempo di approfondire le sensazioni che ho potuto raccogliere in fretta e che non sono state sempre positive.

Grosso modo, la zona costiera mi è sembrata al passo col resto del paese, reattiva nei confronti dei disastri naturali che la perseguitano da sempre, propositiva, costruttiva, moderna. Per contro, all’interno di questi stati siamo ancora a livello di società che definirei pre-industriali, assurdamente chiuse, aggressive in quanto timorose che qualcosa o qualcuno possa turbare l’ordine stabilito. Qui si trova il vero conservatorismo con la “c” minuscola, piccolo, meschino e sorpassato a sua insaputa.

Come dicevo, per almeno una settimana sarò in Florida e già dai primi chilometri si vede la preponderanza della scelta abitativa (e turistica) in questo stato: li chiamano “condo”, abbreviazione non di condom, ma di condominio.

Sono una vera e propria foresta di stuzzicadenti di cemento piantati tra le dune della spiaggia: precludono ai più la vista di un panorama meraviglioso, quello delle spiagge sull’oceano.

Ma c’è ancora qualche giorno di tempo per approfondire questo aspetto!

E, tanto per gradire, stasera ho cenato da McGuire’s, un ristorante irlandese cult di Pensacola. Alle pareti una serie immensa di foto di ospiti più o meno famosi: vari astronauti, cantanti, il candidato presidenziale McCain, governatori, poliziotti, militari, i pugili Ken Norton e Larry Holmes, insieme dopo il loro incontro mondiale, ecc. ecc.

Ma la vera particolarità del ristorante è un’altra: al soffitto e alle colonne sono aggraffati biglietti da un dollaro firmati dagli avventori.

Tutto cominciò quando l’attuale proprietario attaccò al soffitto il primo dollaro che aveva ricevuto come mancia quando faceva il cameriere. Oggi si calcola che appesi da McGuire’s ci siano circa un milione di banconote. So che sembrano tante, ma bisogna vedere per credere. Mi dispiace solo non avere avuto la macchina fotografica con me, perché una cosa simile non l’avevo mai vista.

E a proposito di soldi, quando l’altra sera sono partito dall’Hard Rock Casino e ho cambiato le fiches che mi avanzavano, per un totale di 35 dollari, il cassiere, tal Franky Messina, mi ha detto serio: “Che culo!”.

Per un attimo ho avuto l’impressione che mi prendesse… in giro!

Ps: Dovrei ricordare più spesso che questo mio viaggio è a scopo di beneficenza.

Se volete, potete dare una mano all’associazione Ruvuma, che trovate all’indirizzo: www.ruvuma.it

Ricordo che potete dare un contributo direttamente all’associazione, oppure sul conto speciale che ho aperto a Bruxelles presso la banca BNP Parisbas Fortis, agenzia Schuman.

Ppss: il caldo, i chilometri e la stanchezza stanno lasciando il segno.

Per domani prevedo una tappa breve e una mezza giornata di riposo, sia per le gambe che per il neurone o due che mi aiutano a scrivere il blog.

A dopodomani.