[alert close=”no”]Percorso: G 45 – Biloxi (MS) to Dauphin Island (AL) 110 km[/alert]

Ennesima giornata di sole, con caldo umido e afoso, e temperatura ben oltre i 30 gradi.

Partenza da Biloxi ritardata alle 9.30 perché si fa sentire un po’ la fatica nelle gambe, ma per fortuna sono riuscito a prenotare per stasera l’ultima camera disponibile nell’unico motel di Dauphin Island, in Alabama.

Questa non è certo alta stagione turistica, ma tutta la costa della Luisiana, del Mississippi e ora dell’Alabama è invasa da torme di giornalisti, tecnici e fotografi all’inseguimento della temuta marea nera che gioca a rimpiattino a qualche miglio dalla costa, per poter essere i primi a documentarne l’arrivo a terra.

E poi ci sono le migliaia di uomini, volontari e non, messi in campo dalle autorità per prepararsi a parare il colpo. Di fronte al mio motel, ieri, alcune dozzine di persone stavano pulendo la spiaggia e si allenavano a stendere le centinaia di metri di barriera colorata che dovrebbe, se non impedire, almeno limitare l’arrivo del greggio.

Chilometri di barriera sono già stati stesi nei punti d’inquinamento più probabili, anche se, a vederli così, non sembrano il massimo, soprattutto se il mare dovesse ingrossare.

Si comincia comunque a sentire aria di mobilitazione generale, e le grandi emittenti televisive si stanno finalmente concentrando sul problema dell’ambiente e del meteo.

La CNN, addirittura, ha chiesto scusa ai telespettatori per aver sottovalutato le inondazioni che hanno sconvolto Nashville e domani trasmetterà il suo notiziario proprio da lì.

Non ricordo più chi mi avesse consigliato in un messaggio di fare un salto a Nashville, ma se avesse visto le immagini dell’edificio scolastico che passava di fianco ai camion, trascinato dalla corrente, forse avrebbe cambiato idea .

Ed è così che ho preferito prendere la direzione della costa lungo la mitica Highway 90, una delle poche che uniscono la costa atlantica a quella del Pacifico e che in quanto tale ha rappresentato una delle arterie vitali del paese, fino a quando non è stata rimpiazzata dalla I 10, più nuova, più diretta, più larga, più tutto.

È la stessa cosa che è successa alla ancor più mitica Route 66, che rimane viva soprattutto nel ricordo dei bikers, gli irriducibili che la percorrono ancora da costa a costa a cavallo della Harley (a proposito, devo ancora estrarre il vincitore del concorso).

Dopo poche miglia, mi sono imbattuto in un monumento ai caduti della guerra del Vietnam e mi sono fermato a visitarlo. È una specie di parco del ricordo, con monumenti, statue, esemplari di armamenti e due muri con i nomi dei morti originari dello stato del Mississippi. Vi ho incontrato due veterani, Samuel e Don. A loro è andata bene: sono venuti a rendere omaggio ad alcuni loro amici.

È andata con loro come spesso mi succede durante questo viaggio; cioè, la gente mi rivolge la parola perché fa fatica ad immaginare che esista un mezzo di trasporto diverso dall’automobile.

Poi, finite le mie spiegazioni, comincia a raccontarmi la sua vita.

Sam ha fatto tutta la sua carriera nei marines, ha visitato tutta l’Europa ed è rimasto innamorato di Napoli, dove ha soggiornato per parecchio tempo.

Ma mi ha anche raccontato del Vietnam, anzi del “Nam”, come lo chiamano quaggiù, e di come si sia arruolato appena finite le superiori perché difficilmente avrebbe avuto i mezzi per continuare a studiare e ancor più difficilmente avrebbe trovato un lavoro adeguato.

È incredibile sentirlo dire candidamente che quando si è arruolato ha chiesto solo che gli venisse dato un mitragliatore. Eccome se gliel’hanno dato, un grande M 60, come quello, mi fa vedere, che porta stampigliato sul berretto. E come quello, aggiungo io, che si vede nei primi film di Rambo.

Parlare con Samuel mi ha fatto riflettere per un attimo su cosa sia veramente questo “sogno americano” di cui tutti si riempiono la bocca e confesso di avere più dubbi di prima. All’entrata del parco una lapide ricorda che la guerra è durata dal 1958 al 1973.

A Poplarville, quel lugubre ripostiglio di anime astemie ma pur sempre fetide in cui ho pernottato due giorni fa, l’ultimo caso di linciaggio risale al 1959. La vittima era un nero, ovviamente, come Samuel e Don, per cui faccio fatica ad allontanare da me l’idea che a quell’epoca il sogno americano si limitasse ad una scelta fra la povertà a vita, la discriminazione (o il linciaggio) e il Vietnam.

La settimana scorsa il presidente Obama ha commemorato con una cerimonia molto intensa una trentina di minatori rimasti intrappolati sottoterra in una miniera di carbone. Ha detto che questi poveretti cercavano di migliorare il destino loro e delle loro famiglie, e “quindi stavano cercando di realizzare il sogno americano”.

Il sogno americano in miniera? Mah, io riuscirei ad immaginare tante altre maniere meno pericolose di realizzare il mio sogno… E se il sogno americano vuol dire non soltanto uscire dalla miseria, ma anche raggiungere migliore qualità di vita e vere opportunità di avanzamento sociale, allora anche l’America ha ancora parecchia strada da fare.

Qualche esempio in libertà, per illustrare quello che mi passa per la testa.

In una piccola stazione di servizio dopo Silsbee vedo affisso l’annuncio di una donna del luogo, da poco vedova: il figlio, falegname con famiglia a carico, si ammala di tumore. Non ha assicurazione medica. Si accettano donazioni per pagare le cure.

Casi del genere ne ho visti parecchi in queste campagne. Chiedo sempre, e sempre sono casi autentici di gente del luogo.

Ron, il californiano con cui ho viaggiato per un paio di giorni, mi racconta di un suo conoscente: un giovane ammalato gravemente si ritrova da un giorno all’altro senza copertura medica perché questa faceva capo a suo padre, deceduto improvvisamente.

Todd, il pompiere del Connecticut con cui ho pure viaggiato per qualche giorno, dieci anni fa si è salvato grazie a cure e interventi costosissimi. Non avesse avuto un’assicurazione medica adeguata, oggi non sarebbe qui a raccontare il fatto, visto che lo stato fino ad oggi garantisce a tutti solo un livello minimo di assistenza, insufficiente per affrontare i casi più gravi, anzi, più costosi, il che è ancora peggio. E poi alcuni mi dicono ancora che la riforma di Obama è sbagliata? Non so veramente più cosa pensare.

Un ultimo esempio, di tipo diverso. Ogni volta che incontra una caserma dei pompieri, Todd si ferma per uno scambio di gagliardetti. Un giorno mi sono fermato con lui. Scopro che tutti i pompieri sono volontari e che non viene rimborsata loro una lira: la contea non ha soldi e può pagare solo le attrezzature. Questo, in una zona ad alta incidenza di incendi boschivi.

Due sere dopo mi trovo a Simmersport, dove ci dicono che il locale dove dovevamo mangiare è andato in fiamme.

Sapete qual è stato il tempo di intervento dei pompieri, ovviamente volontari? Cinquantacinque minuti! Evidentemente il sogno americano non prevede norme antincendio.

Il proprietario, giustamente furibondo, ha trovato lo stesso il tempo di raccontarmi dei suoi nonni italiani, lei Rosy Teresa Torino (per giunta di Torino) e lui Salvatore Madia (di Napoli). A forza di storpiature anagrafiche, adesso il cognome è diventato Maddie, che sarà pure un nome di donna, ma perlomeno ha il grande vantaggio di sembrare americano. Un altro sogno americano realizzato!

Mi fermo, perché magari sto tirando dei fili sbagliati e rischio solo di ingarbugliare la matassa.

Però mi viene in mente che anch’io, alla mia maniera, una volta ho realizzato uno dei sogni più ambiti, quello di cambiar nome.

Dopo un anno a Bruxelles, misi un annuncio per vendere una Fiat 128 coupé scassatissima, con cui ero già rimasto a piedi più volte. Immaginando che nessuno avrebbe comprato un mezzo simile, per di più venduto da un italiano, mi inventai uno pseudonimo che più belga non si poteva: firmai “Emil Van den Berg”, traduzione letterale del mio nome.

Ne fui fiero.

Avevo realizzato il mio grande sogno fiammingo.

[alert close=”no”]Percorso: G 44 – Poplarville (MS) – Biloxi (MS) 101 km[/alert]

Un ettaro di terreno sulle colline di Modigliana (Forlì) ha una resa catastale di poche centinaia di euro. Un ettaro di terreno a Biloxi, stato del Mississippi, può rendere parecchi milioni di dollari all’anno. La differenza sta tutta nell’utilizzo.

Nel complesso dell’Hard Rock Cafe di Biloxi si trovano riuniti un albergo di venti piani, una sala per grandi concerti dal vivo e un tradizionale Hard Rock Cafe come lo conosciamo in Europa.

L’ettaro di terreno a cui mi riferivo, invece, è il casinò. La misura è simbolica, nel senso che il piano su cui si sviluppa la sala giochi di ettari ne misura più di due, se la misurazione approssimativa che ho fatto a passi può essere considerata affidabile.

Io non frequento molto spesso i casinò, ma una sala del genere me la immaginavo magari a Las Vegas e non in una cittadina costiera di 50.000 abitanti che cinque anni fa è stata praticamente distrutta dall’uragano Katrina. Ero indeciso se entrare in questo locale, ma alla fine il richiamo della gigantesca chitarra al neon che troneggia sul parcheggio e si vede da lontanissimo è stato troppo forte.

In Europa per entrare al casinò è richiesta come minimo la giacca e a volte la cravatta. Spesso sono vietati i jeans e quasi sempre le scarpe da ginnastica. In America è richiesto, fondamentalmente, di non essere nudi.

Del resto, in tantissimi esercizi commerciali vige la ferrea regola del No shirt, no shoes, no service, cioè bisogna indossare almeno le scarpe e una maglietta per essere serviti. I pantaloni, bontà loro, li danno per scontati.

Con i miei jeans e maglietta neri sembravo Armani circondato da una folla di terremotati del terzo mondo, nel senso che la gente, che qua in generale non si cura molto del proprio look, sembra curarsene ancora meno quando va a buttar via i soldi.

Per farla breve, questo Hard Rock è imponente e rispetto all’altra dozzina di casinò della città ha il vantaggio di poter sfruttare l’attrattiva del rock e la fama dei suoi idoli.

Alle pareti c’è di tutto: centinaia di chitarre di artisti, il vestito lungo indossato da Madonna, quello pieno di paillettes di Elton John, i pantaloni di uno degli ZZ Top e le mutande di un rapper a me sconosciuto.

Se mai divento una star del rock, offrirò i miei calzini da bici che sono partiti immacolati da San Diego e oggi sono color antracite, perché li lavo con i panni colorati.

Dal punto di vista alimentare è stata una serata strana, nel senso che, dopo aver detto peste e corna degli hamburger, ho finito per mangiarmene due in altrettanti posti diversi. Uno all’Hard Rock Cafe e l’altro da Anthony’s, un locale che deve la sua fama al fatto che ci andava a mangiare Elvis Presley quando era militare nella base aerea che è proprio di fianco al mio motel.

Ah, dimenticavo che in una vetrina del casinò fa bella mostra di sé anche l’uniforme (o una delle uniformi) che Elvis indossava mentre faceva, si fa per dire, la naja. Ma prima di abbandonarmi alle tentazioni della carne macinata e della birra (ovviamente in questa contea si beve alla grande!), mi ero attardato sul lungomare, dove sono stazionate varie televisioni che si stanno occupando del disastro ambientale del Golfo del Messico.

Quella più attiva è la TV pubblica canadese, la CBC, che è sul posto da quattro giorni in attesa che la macchia di greggio arrivi sulle spiagge della zona. Essendo ormai a corto di personalità da intervistare, la CBC ha pensato bene di intervistare anche i passanti e sono fiero di annunciare che ho fatto anch’io la mia parte.

Per cui nel notiziario di stasera l’ignaro telespettatore di Toronto ascolterà il parere di un ciclista italiano vestito come Armani che si trova per sbaglio sulla costa del Golfo del Messico e può raccontare anche quello che si dice in Luisiana, dato che era lì appena due giorni fa. Non saranno i quindici minuti di celebrità che Andy Warhol auspicava per tutti, ma ci siamo andati vicino .

Sulla battigia c’era anche Linda, attivista di uno dei maggiori gruppi ecologisti americani, che mi ha messo al corrente dell’evolversi della situazione e mi ha raccontato peste e corna dell’attuale governatore dello stato, che, come fece ai tempi di Katrina, ha già dichiarato che le operazioni di salvataggio e pulizia saranno affidate ai privati. Mi astengo da ogni commento.

Chi non si astiene dai commenti è Fox News, che ha sviluppato una tesi stupefacente: Obama ritarda volontariamente la risoluzione del problema nel Golfo perché vuole un disastro ecologico e così potrà vietare le trivellazioni al largo delle spiagge. Quando ho sentito questa storia non sapevo se ridere o piangere, ma si sa, noi europei siamo tutti troppo “liberal” per certi americani.

Resta il fatto che i media stranieri seguono la storia ancor più dei media nazionali. Persino una troupe italiana era qui ieri. La CNN, la ABC, la CBS e la stessa Fox passano quasi tutto il tempo a parlare del fallito attentato terrorista a New York, perché la sicurezza, sia essa personale o nazionale, è la vera ossessione di questo paese.

Stamattina una giornalista intervistava i vicini di casa dell’attenatore. Le loro figlie, come penso facciano di solito i bambini vicini di casa, giocavano insieme alle sue figlie. Domanda: “Ma quali giochi facevano?”. Ecco, quando si arriva a questo livello di stupidità, è meglio guardare i cartoni animati.

Intanto gli studi legali comprano spazi pubblicitari su tutte le stazioni tv e radio: se pensate di avere subito o di subire in futuro un danno qualsiasi a causa della fuga di greggio, basta telefonare. E così partecipate ad una class action, una delle tante cause collettive che sono già state lanciate. Se fossi il gran capo della British Petroleum (BP), sarei preoccupato!

Ma come sono finito a Biloxi? Non era previsto in effetti, ma stamattina, dopo aver ritrovato per strada il gruppo organizzato, ho deciso che non avevo voglia di seguire la loro strada di campagna, perché gli acquitrini, i boschi e i campeggi vanno bene, ma fino a un certo punto.

Domani sera o dopodomani ritroverò loro, Karman e forse qualcun altro degli “isolati” che battono la pista del Sud. Intanto, mi godo il casinò.

Chiudo con l’ultimo degli incontri di oggi, il più improbabile di una serie già abbastanza inverosimile: mentre torno in bici sul marciapiede che costeggia il lungomare, vedo un tipo bloccato al buio su una carrozzina a motore: ha attraversato la strada, ma non riesce a superare lo scalino del marciapiede.

È Joe, che tutto si aspetta fuorché un ciclista che si ferma, lo solleva e lo rimette in carreggiata. Joe viene dalla Luisiana ed è un veterano del Vietman, dove ha lasciato tanti commilitoni e un pezzo della gamba destra, dal ginocchio in giù. Mi dice che la guerra è una brutta storia. Lo sapevo già, ma detto da Joe fa un altro effetto.

Non c’è nessuno per fotografarci assieme, ma vuole che gli faccia una foto. Di sera usa la carrozzina che gli ha pagato l’esercito, ma di giorno, incredibilmente, usa la bicicletta. Mi dice, fiero: «I have a Bianci», perché da bravo americano “ch” si pronuncia “c”.

Mi commuove un po’ pensare che l’ha adattata come aveva fatto mia nonna, che non piegava più un ginocchio: un pedale bloccato, una sola gamba e un solo pedale che fanno il movimento, e via!

Anche mia nonna aveva una Bianci.


[alert close=”no”]Percorso:  G 43 Franklinton (LA) – Poplarville (MS) 104 km[/alert]

Il reverendo Shannon Marshall è il pastore della chiesa battista di Steep Hollow, a Poplarville, stato del Mississippi, dove mi sono fermato per la notte.

Non ci conosciamo personalmente, e forse è meglio così, anche se due cosine da dirgli le avrei.

Ma veniamo ai fatti. Oggi, almeno sulla carta, doveva essere una tappa facile, da non più di 80 chilometri. Invece si è rivelata più dura del previsto, per vari motivi. Intanto, causa una imperdonabile distrazione, ho sbagliato strada e mi sono ritrovato a fare 30 km. di più. E sarebbe andata anche peggio se Karman, il ciclista canadese che oggi ha viaggiato con me, non avesse acceso il suo GPS e non si fosse reso conto che eravamo fuori strada.

Poi c’è da considerare il calore, ben oltre i 32 gradi per tutta la giornata, con molta umidità nell’aria, il che richiede un’idratazione costante e abbondante.

E da ultimo, il pericolo rappresentato dai cani, che spesso non sono al guinzaglio e quindi sono liberi di inseguire i pochi ciclisti che osano passare vicino al territorio che presidiano. Le armi di difesa sono varie, dal mio aggeggio che spara frequenze, alla semplice spruzzata d’acqua, ma certe volte, viste le dimensioni dei cani, è meglio spingere sui pedali e basta.

Resta comunque il fatto che in Luisiana e ancor più nello stato del Mississippi, dove sono entrato verso mezzogiorno, tante persone ignorano tranquillamente la legge sul controllo dei cani.

Ecco, dopo una giornata così, quando si arriva finalmente a destinazione, il manuale del bravo ciclista prevede di fermarsi dal benzinaio a comperare una bella birra fresca da consumare non certo in pubblico (per carità!), ma appena si entra nella propria camera o nella propria tenda in campeggio.

Quale non è stata la nostra sorpresa quando il benzinaio di turno, molto dispiaciuto, ci ha detto che eravamo in una contea “asciutta”, dove non si può vendere alcun tipo di alcolico. O meglio, un posto ci sarebbe anche, ed è il circolo dei veterani di guerra, che serve birra e vino, ma non superalcolici.

Teoricamente, ci spiega il benzinaio, bisognerebbe essere o essere stati militari per entrare nel circolo, ma vista la situazione sono molto disposti a chiudere più di un occhio, e anche lui ci va regolarmente per bere una bella Budweiser! Il problema è che questo circolo è a non so quante miglia di distanza e non avevo più la forza né la voglia di rimettermi in sella.

Nel frattempo arriva il proprietario del bed & breakfast dove alloggeremo: Bob, un arzillo ultrasettantenne che bazzica i casinò della costa e che ha capito il nostro bisogno impellente.

Ci dice con fare sornione: “Io non posso bere in questo momento, ma a casa dovrei avere ancora qualcosina”.

Tempo cinque minuti e torna con sei birre freddissime che, dice testualmente, suo nipote gli deve aver comperato a sua insaputa (sic). Mi è venuto da chiedergli se di cognome fa Scajola, ma mi sono trattenuto per carità di patria.

Bob mi ha purtroppo confermato quello che temevo: il divieto di bere e vendere alcolici nella contea ha un fondamento religioso, nel senso che in particolare la chiesa battista, potentissima da queste parti, da sempre condanna l’uso delle sostanze alcoliche.

Qui siamo nel cuore della cosiddetta “cintura della Bibbia”, e non a caso ci sono più chiese che bar, spesso in fila una dopo l’altra: soprattutto di fede battista, ma anche di pentecostali, metodisti, presbiteriani, cattolici, mormoni, testimoni di Geova, ecc.

Siamo nella zona più credente (e anche bigotta) del paese, dove nei giardini delle case i nani di Biancaneve sono stati sostituiti da sculture di carattere sacro, e dove la religione incarnata dal movimento protestante evangelico ha moltissimi adepti, al punto da condizionare la vita politica, l’insegnamento delle scienze e la scuola in generale.

Qui si trova gente che va a visitare il Museo del Creazionismo, aperto tre anni fa più a nord, in Kentucky, dove si insegna ai visitatori che la Terra fu creata in sei giorni circa 6.000 anni fa e che i dinosauri (bontà loro) facevano parte degli animali che erano sull’arca di Noè.

Non si dice quanto fosse grande l’arca, che a rigore di logica dovrebbe avere la stazza di un paio di portaerei, ma questo rientra nella categoria dei misteri gloriosi.

Comunque, visto che ognuno ha il diritto di credere quello che gli pare, la cosa non mi turba più di tanto. Quello che mi turba alla grande è il fatto di non potermi bere una birra quando e dove mi pare.

Così come non mi va di essere considerato una persona immorale in base al mio modesto consumo alcolico: lo trovo oscurantista e francamente umiliante.

Il bello è che le tre o quattro persone con cui abbiamo parlato stasera erano tutte scontente di questa proibizione e ci hanno confermato la realtà dei fatti: quasi tutti gli integerrimi cittadini di questo buco di paese che va sotto il nome di Poplarville votano per il divieto sugli alcolici, poi prendono il camioncino, vanno a fare il pieno di alcol in Luisiana, che dista meno di 30 km, e si ubriacano come delle tinche dietro le quattro pareti di casa.

È un classicone, a pensarci bene, che in Italia conosciamo benissimo: vizi privati e pubbliche virtù!

Altra conseguenza paradossale del divieto: per non farsi vedere in paese mentre commettono l’atto impuro di bere una birra, i bravi cittadini salgono sull’immancabile camioncino, fanno un giro in campagna e gettano le lattine vuote dal finestrino.

Il risultato è che i detenuti del piccolo carcere locale passano tutte le loro giornate all’aria aperta, nel senso che si occupano di raccogliere le lattine e le bottiglie vuote per tenere puliti i fossi delle strade del comune.

La signora del locale che vende hamburger mi ha detto che in genere la chiesa battista chiede ai fedeli di votare per il divieto, con la motivazione che si vuole evitare che in paese vengano aperti dei bar, noti luoghi di perdizione.

Perfetto, ma vi lascio immaginare cos’è Poplarville di sera: un po’ peggio di un mortorio.

Mentre iniziavo a scrivere questo post, Karman è uscito per fare un giretto del paese ed è tornato con i capelli dritti.

A differenza, ad esempio, del villaggio da cui siamo partiti stamane, qui in giro non c’è praticamente nessuno, una volta che il Mcdonald e qualche altro localino simile chiudono alle 9. Non ci sono cinema, non ci sono bar, non ci sono luoghi di socializzazione.

Ben tre conducenti di pick-up gli hanno urlato qualcosa di incomprensibile e uno è partito col rosso al semaforo e ha cercato di metterlo sotto mentre attraversava sulle strisce. Forse stava scherzando, chi lo sa.

Già in un altro paesino di questi ho notato che l’attività serale principale degli uomini, giovani o adulti che siano, sembra essere quella di partire a tutto gas agli incroci lasciando strisce di gomma per terra. Quello che è sorprendente è che “fanno le riprese” da soli, guardando con aria cupa l’ignaro turista di passaggio, come a lanciargli una messa in guardia.

Qualche sera fa, a Mamou, stessa scena. Stavo camminando per la strada pricipale in cerca di un ristorante con i miei quattro improvvisati compagni di bicicletta, quando un tipo, con un pick-up Dodge Ram a benzina ha piazzato una “ripresona” assurda guardandoci con aria di sfida e lasciandosi dietro almeno mille dollari di gomma bruciata e 500 di benzina, visto che ha un motore da 7.500 cc!

Tre incroci dopo gli siamo passati di fianco mentre spiegava le sue ragioni con aria mite ad uno sceriffo piuttosto arrabbiato.

Questi sono i cosiddetti red necks, o “colli rossi”. Così infatti vengono definiti con termine dispregiativo i bifolchi del sud degli Stati Uniti, semplicemente per il colore acceso della nuca, esposta continuamente al sole.

Da domani, sul collo uso una crema solare protezione 100.

Mentre sto per chiudere, vedo che davanti alla porta si è fermato un pick up e ha spento le luci. Dentro, riconosco la sagoma inconfondibile del reverendo Marshall.

Ha qualcosa di luccicante in mano.

Gli dico: “Piano, Marshall!”

Ma non è una Colt. È una Budweiser.

Budweiser Light, ovviamente, perché così è solo peccato veniale.


View G 42 – Denham Springs (LA) – Franklinton (LA) in a larger map
[alert close=”no”]G 41-42 Denham Springs (LA) – Franklinton (LA) 103 km[/alert]

Avrei dovuto capirlo prima, ma finalmente ci sono arrivato: il motivo per cui le città americane, soprattutto quelle grandi, non mi piacciono è che non sono costruite pensando agli abitanti, bensì in funzione delle automobili.

La lampadina si è accesa quando sono arrivato a Baton Rouge, la capitale della Luisiana. Ho trovato un motel dalle parti dell’aeroporto, a nord della città. La mattina dopo è venuto a prendermi Dave Tullier, il meccanico con cui mi ero messo d’accordo alla vigilia, che mi ha portato a sud della città, dove abita con la moglie Cindy e ha il suo garage-bottega. Per attraversare la città abbiamo percorso la I 10, un’autostrada a 5 corsie: in questa frase c’è l’essenza di una città americana. Mi spiego.

Prendiamo la via Emilia: subito prima dei capoluoghi e delle città importanti, troviamo una bella circonvallazione che dirotta il traffico di passaggio, per cui la via Emilia in questione prende le sembianze di una strada normale, con semafori e attraversamenti pedonali, e così “ridotta” attraversa la piazza principale, che è anche il centro della città.

All’altra estremità si ricongiunge con la circonvallazione e riparte.

Qua è il contrario. Alla periferia della città, la tranquilla statale con corsia d’emergenza, che i ciclisti possono usare in sicurezza, diventa una specie di tracciato di Formula 1, spesso sopraelevato e stretto in barriere di cemento, che attraversa tutto il centro abitato, e da cui si prendono le varie uscite per andare in un quartiere o l’altro. Risultato: arrivare in centro con la bici è difficile, quando non impossibile, e sicuramente pericolosissimo.

Una volta che si è comunque giunti in centro, magari in camioncino come ho fatto io, la situazione non migliora. Nella zona residenziale di Baton Rouge dove mi trovavo, i marciapiedi non esistono e per andare dall’albergo a casa del meccanico, (distanza un chilometro tra sì e no) ho dovuto camminare in mezzo all’erba, dove col tempo si è creato una specie di stretto sentiero, fatto da tutti i disgraziati che non hanno un’automobile, cioè i poveracci, i senzatetto, i sonnambuli e il sottoscritto. La conclusione è semplice: qui non siamo a New York, dove si gira tutta Manhattan a piedi, in autobus o in metropolitana. Chi non ha l’automobile, da queste parti è un pezzente e la vita non gli viene certo facilitata dal fatto che i grandi magazzini sono concentrati attorno alla città, a distanze proibitive per il pedone comune.

Per dirne una, non ci sono solo i drive-in per andare a mangiare fast food. Ci sono anche quelli per prelevare soldi al Bancomat. Una sera sono andato a fare un prelievo, ovviamente a piedi, e mi sono messo ad armeggiare con la carta. Un tipo che arrivava in macchina mi ha guardato e ha fatto marcia indietro.

Va bene che mi abbronzo facile e in vita mia mi hanno già preso per marocchino, cipriota, turco e mediorientale in genere. Va bene che uno vestito da ciclista è uno spettacolo che vedono solo a Carnevale (il famoso Mardi Gras), ma insomma, come si fa a prendere per delinquente uno con la maglia della Cotignolese?

Comunque, la cosa più bella di Baton Rouge è il suo nome. Si dice che sia nato quando il signore di Iberville, a capo di una spedizione che stava risalendo il Mississippi nel 1699, vide un tronco di cipresso a cui erano appese le carcasse sanguinolente di animali e pesci.

Era il confine tra i territori di caccia di due tribù indiane e da quel momento la zona venne conosciuta come il “bastone rosso”.

Ieri invece ho affittato un’automobile e sono stato a visitare New Orleans, la città che come simbolo ha il giglio dei reali di Francia. Altra merce! Non esito a dire che è la città più bella vista finora in questo viaggio, nonostante il tempo miserabile che mi ha accompagnato: pioggia fine quasi tutto il giorno, e oltre 30 gradi con umidità esagerata. Ad essere precisi, di New Orleans ne ho viste quattro.

La prima è l’immancabile “Quartiere francese”, che è uno spettacolo unico, anche se si è ormai trasformato in una potente macchina attira-turisti.

Case bellissime e colorate, spesso di legno, balconi fioriti, negozietti che vendono di tutto (molta paccottiglia, ma non solo), un’infinità di bar pieni di gente che beve birra già alle 9 di mattina, ristorantini, antri bui che invitano a entrare nel mondo del voodoo, personaggi assurdi che girano in bicicletta (non io, per una volta!), e tanta tanta musica che esce da tutte le parti, quando non è prodotta da qualche orchestrina che suona sotto i porticati: un’atmosfera irripetibile, soprattutto in questi giorni in cui si svolge il festival del jazz.

Al mercatino ho comprato una compilation dei migliori artisti di musica “cajun” e tornando mi sono fatto una scorpacciata di ritmi popolari dominati dalla fisarmonica e dal violino, dicendomi che non erano poi così diversi da quelli che si suonavano nelle nostre aie: mancava solo la ghironda.

La seconda New Orleans che ho visto è quella che si dipana attorno alla via intitolata a San Carlo, che corre parallela all’insenatura del Mississippi e che, volendo, si può percorrere anche in tram d’epoca.

È una collezione incredibile di dimore signorili del 19° secolo, un florilegio di stili architettonici, un’ esplosione di creatività quale raramente si vede in un unico luogo. Saranno 5 o 6 chilometri di puro godimento degli occhi.

La terza New Orleans che ho visto è quella che fa da ala al quartiere francese e al quartiere delle grandi dimore. È la città del ceto medio, molto estesa, che mantiene un fascino particolare. È come se fosse una versione ridotta degli altri due quartieri: case meno appariscenti, certo, ma aggraziate e originali, tanti negozi etnici, una vita brulicante non macchiata dal turismo di massa. E, cosa importantissima che mi ha fatto pensare ad Austin, capitale del Texas, un’evidente lotta spietata contro le grandi multinazionali del cibo facile. Al punto che l’unico Mcdonald che ho visto aveva l’insegna ad altezza del terreno e soprattutto dello stesso color pastello delle case circostanti: gli amministratori si saranno detti che almeno l’occhio deve avere la sua parte, visto che non può averla lo stomaco!

Che bello se New Orleans fosse tutta qua.

E invece c’è la quarta parte, la città dei più poveri (al 90% neri), quella che nel 2005 più di tutte patì l’impatto dell’uragano Katrina, che qui lasciò oltre 1.500 morti e coprì di ridicolo e di vergogna l’intero governo americano. A onor del vero, l’impressione che ho ricavato non è, nell’insieme, così drammatica. Si vede chiaramente che qualcosa è stato fatto e molto si sta facendo. A occhio e croce, una metà delle case è stata risistemata ed è abitata. L’altra metà è semplicemente abbandonata, porte e finestre sbarrate da assi di legno e erbacce nel giardinetto. Si vedono attività che hanno ripreso, chiese rifatte, negozi aperti, ma anche rottami di auto abbandonate, gruppi di giovani che bighellonano per i marciapiedi (quelli almeno ci sono), strade rattoppate alla bell’e meglio. Sinceramente, non so dire se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto; dico solo che temevo fosse ancor peggio di così.

Sono ripartito da New Orleans portando con me un ricordo nell’insieme molto bello di una città senza dubbio unica, almeno per quello che ho visto io.

Certo, tutti parlano della criminalità rampante; e vedere la sommità dei muri dei giardini coperta di cocci di vetro e filo spinato per evitare intrusioni ha confermato che dietro alla musica e al cibo cajun, dietro alle feste serali a base di birra e dietro allo sforzo della ricostruzione per dare un alloggio decente a tutti, qualcosa ancora ancora non va nella città di Armstrong.

Già, ma quale Armstrong? Louis Armstrong, naturalmente, che qui era nato e a cui sono intitolati sia l’aeroporto che un immenso parco tuttora in fase di recupero. La domanda comunque, non è peregrina, e verrebbe da dire che “stato che vai, Armstrong che trovi”. In Texas questo cognome è associato a Lance, il ciclista. In Luisiana è Louis, l’immenso jazzista che nel 1968 venne anche a cantare a Sanremo. In Florida, soprattutto dalle parti di Cape Canaveral, l’associazione sarà con l’astronauta che per primo mise piede sulla luna. E in Italia? Se non erro anche noi possiamo vantarne uno. Scriveva su l’Unità quando io ero un bambino.

Si firmava Fortebraccio.

[alert close=”no”]G 40 Baton Rouge (LA)[/alert]

A prima vista non sembra, ma piano piano ti accorgi che la frontiera fra il Texas e la Luisiana è molto più di un confine amministrativo: è la linea che separa due mondi molto diversi.

Tutto cambia nello spazio di pochi chilometri: il paesaggio, la cucina, il tipo di persone, tanti nomi di cose, il modello delle case, e molto altro ancora.

L’acqua è l’elemento dominante che compare improvvisamente in abbondanza. Non a caso, un buon terzo dello stato sarebbe sommerso, non fosse per gli argini artificiali che l’uomo ha costruito per salvaguardare i suoi insediamenti e le sue risorse. E abbiamo visto con l’uragano Katrina cosa può succedere quando le dighe cedono.

Le città più vecchie e i resti delle civiltà che hanno preceduto la colonizzazione si trovano a ridosso dei fiumi, poiché le vie d’acqua hanno garantito per millenni i trasporti e i commerci.

Una caratteristica di molti corsi d’acqua è che sono più alti delle pianure alluvionali che li circondano. Questo vale soprattutto per il Mississippi, che si snoda maestoso e a malapena contenuto da rive naturalmente costituite da depositi sedimentari. Dico a malapena perché è evidente il ruolo dei vari laghi e cosiddetti “finti fiumi” che, a mo’ di vasi d’espansione, accolgono il surplus idrico che scende verso il Golfo del Messico, soprattutto in anni come questo in cui è piovuto molto a monte.

L’abbondanza d’acqua ha un impatto che definirei globale: cambiano il paesaggio e la vegetazione, con l’apparizione di boschi di conifere molto alte, cipressi che affondano il tronco e le radici negli acquitrini, nuvoli di insetti e, purtroppo, zanzare affamate.

John, la cui famiglia di antiche origini francesi abita subito fuori della città di Simmesport, mi ha mostrato la terra che coltiva lungo il corso antico del Grande Fiume, quando la distanza dal mare era inferiore di circa 100 miglia rispetto a quella odierna. E mi ha indicato il migliore punto d’osservazione, da cui si può scendere fino a toccare fisicamente le acque del Mississippi; la mia cartina non lo segnala ed è sconosciuto ai turisti, forse perché è troppo vicino al penitenziario statale, dal nome, chissà perché africaneggiante, di Angola.

Questa è la zona dei cosiddetti bayous, che sono o zone paludose, o fiumi le cui acque scorrono talmente piano da diventare, a momenti, stagnanti.

Sono il luogo di riproduzione prediletto dei gamberi d’acqua dolce, una delle principali risorse economiche e alimentari dello stato, assieme a gamberetti, pesce gatto e, ahimé, alligatori (sì, anche la carne di alligatore si mangia).

Tutto sembra scorrere al rallentatore, dall’acqua, appunto, al ritmo del lavoro, alla parlata della gente, che diventa lenta, quasi strascicata, come se il caldo afoso e umido rallentasse tutte le funzioni vitali.

Il taglio controllato dei boschi è un’attività in piena espansione: lo testimoniano le squadre di uomini intenti a disboscare, il numero di camion carichi di tronchi che affollano le strade e tutti i pezzi di legno, radici e corteccia che ingombrano ogni corsia di emergenza e pista ciclabile.

E poi campi allagati a perdita d’occhio: da una parte per la coltivazione del riso, tradizionale alimento di base, e dall’altra per l’allevamento dei gamberi, che, una volta adulti, si imprigionano da soli in apposite gabbie di filo di ferro da cui non riescono ad uscire. Tutt’attorno aironi e bipedi vari in festa, che banchettano con le zampe a mollo.

Dobbiamo di sicuro ringraziare i coloni francesi se, finalmente, mi sono potuto concedere una cena degna di questo nome, dopo un mese di sofferenza grondante grasso.

Il piatto, in perfetto stile franco-americano, si chiama crawfish étouffé, ovvero gamberi cotti in un brodo ottenuto miscelando farina, cipolle, pepe rosso e nero, aglio, prezzemolo, spezie e servito su un letto di riso locale.

Già dagli ingredienti si capisce quando sia lontano il Texas, con le sue fiorentine e la sua cattiva imitazione della cucina messicana.

Cambia la popolazione, in termini di origine, colore, atteggiamento. Nella capitale, Baton Rouge, la percentuale di afro-americani, che nei quattro stati dell’ultimo mese era sempre di qualche punto decimale, sale d’un colpo al 51% del totale, portando con sé una sensibilità tutta diversa nei confronti delle grandi tematiche che scuotono l’America di oggi, l’America di Obama: l’immigrazione illegale, l’economia vacillante, le accuse di discriminazione delle minoranze, la riforma sanitaria e una politica in generale favorevole ai meno abbienti.

E non ci voleva proprio la tegola della grande macchia di greggio che rischia di rovinare l’intera economia della zona costiera, fondata sull’acquacoltura, e il delicatissimo equilibrio ecologico di una regione paludosa più unica che rara.

Sono persino riuscito ad avere una breve conversazione in francese con la signora del negozietto in mezzo alla campagna che, dopo avermi offerto i dolcetti al caramello fatti in casa, mi ha raccontato di quando, da bambina, sua nonna le parlava quella strana lingua di famiglia che la scuola non le voleva insegnare: il francese, o meglio una delle tante versioni del francese ufficiale, molto più arcaica, imbastardita con l’inglese ma pur sempre riconoscibile: la lingua dei “Cajun”.

Ma chi sono i Cajun? Sono i discendenti di coloni francesi che nel 17° secolo si erano insediati in una zona denominata Acadia (derivazione di Arcadia), che comprendeva alcune regioni della Nuova Scozia e del Quebec, attualmente a cavallo tra il Canada e il Maine.

Erano pescatori e agricoltori pacifici, che ebbero la sfortuna di trovarsi in una zona oggetto di contesa tra la Francia e l’Inghilterra e che, pur essendosi dichiarati neutrali, vennero deportati in massa dall’Inghilterra e dispersi in tutto il territorio delle colonie, finanche alle isole Falkland/Malvine. Dopo 30 anni di odissea, la Spagna si ritrovò ad avere urgente bisogno di qualcuno che colonizzasse la Luisiana, ed ecco che circa 2.000 “Acadiani” vennero reinsediati di forza nelle praterie, nelle paludi e nei fiumi (bayous) che ho attraversato negli ultimi giorni.

La trasformazione del nome, da “Acadian” a “Cadian” e infine a “Cajun” fu un inevitabile prezzo da pagare all’evoluzione della lingua. Purtroppo il francese di questa minoranza sopravvive a stento.

L’altro giorno, in un villaggio in mezzo alla palude, mi sono fermato assieme ad alcuni improvvisati compagni di viaggio, in un bel mini supermercato tutto nuovo.

Mentre ci stavamo rifocillando, ci siamo divertiti a fare qualche foto dentro a un modello di elicottero che era lì, penso, per intrattenere i bambini mentre i genitori fanno la spesa.

Il proprietario ci ha detto ridendo: “You like playing the cooyons, right?” Visto che un po’ di francese lo so, è stato facile capire che la parola cooyon (pronuncia cùion) altro non era che il couillon d’oltralpe, il nostro stupidotto, o per l’appunto “coglione”.

E così abbiamo scambiato qualche frase in francese, il che ha confermato che, purtroppo, la conoscenza di questa lingua negli Stati Uniti è ormai solo aneddotica.

A proposito di aneddoti, avevo dimenticato di raccontarne uno incredibile che mi porto dietro dal Texas.

Io non sono un cacciatore, né mai lo sarò, però rispetto chi ha il coraggio di alzarsi alle quattro della mattina e va in un capanno costruito a mano in mezzo a un bosco o a farsi chilometri con un cane, per sparare ad animali sempre meno numerosi.

A parte il fatto che qui i capanni si trovano già belli e fatti al supermercato (e passi), un texano ha deciso che non valeva la pena di fare tutta questa fatica per andare a caccia e ha inventato la caccia a distanza.

Funziona così: in una riserva si liberano gli animali che interessa cacciare (cervi, antilopi, cinghiali…). Poi si piazzano delle telecamere in alcuni punti strategici.

Il “cacciatore” paga un tot e, indipendentemente da dove si trova fisicamente, si piazza davanti al computer collegato alle telecamere, su cui è installato un apposito programma. Quando sullo schermo compare il “suo” animale, lo inquadra e spinge il bottone Enter/Invia. In questa maniera aziona un fucile (vero) che si trova sul terreno e uccide la preda. Se la ferisce solamente, qualcuno in loco va a finire l’opera.

Circa la metà degli stati americani ha vietato questa caccia via internet. I suoi sostenitori la giustificano con due argomenti: primo, si permette di cacciare anche a chi non può farlo a causa di un handicap fisico; secondo, i militari in missione all’estero si sentono più vicini a casa, possono cacciare e fare arrivare carne e trofei ai loro familiari!

In Luisiana hanno una parola per definire questa gente:

Cooyons!


[alert close=”no”]Percorso: G 39 Simmesport (LA) – Baton Rouge (LA) 128 km[/alert]

Quarto giorno in Luisiana. Ancora una volta le previsioni del tempo erano pessime e ancora una volta me la sono cavata con poche gocce di pioggia. Ho deciso di cambiare i piani di viaggio e spingermi fino a Baton Rouge, la capitale, per due motivi.

Primo, devo assolutamente andare da un meccanico serio: negli ultimi giorni si sono rotti tre raggi della ruota posteriore. Grazie all’aiuto di un altro ciclista, sono riuscito a fare una riparazione d’emergenza con i raggi di riserva, ma è chiaro che occorre uno specialista.

Il secondo motivo è che dopodomani vorrei fare un salto a New Orleans (un centianio di miglia a sud), per vedere come sta rinascendo la città, dopo il disastro dell’uragano Katrina. Approfitto del fatto che sono arrivato tardi in albergo per scrivere un post veloce e dare qualche risposta alle domande che trovo fra i commenti o nella posta.

Per cominciare smentisco categoricamente i sospetti dei complottisti e san tommasi: gli americani sono andati sulla Luna e io sono venuto in America . A riprova, le foto richiestemi, prese al momento dell’entrata in Luisiana e dal traghetto con cui ho attraversato il Mississippi, in corrispondenza della bella città di St. Francisville.

Una domanda ricorrente riguarda la difficoltà, sia fisica che psicologica, di affrontare un viaggio come questo, della durata di quasi due mesi. Dal punto di vista fisico devo dire che la forma è come l’appetito, nel senso che viene pedalando.

Oltretutto, le montagne, gli altipiani e le colline in serie sono terminati, e viaggiare in pianura, anche se controvento come oggi, è ben più agevole!

L’aspetto psicologico è più delicato. All’inizio il livello di (presumo) adrenalina è tale che, a dispetto della fatica, si dorme poco e si ha l’impressione di recuperare molto facilmente.

Poi c’è l’inevitabile fase del “ma chi me l’ha fatto fare?”. Sono i giorni di crisi più o meno profonda, solitamente legati alle giornate più impegnative fisicamente.

E infine si passa alla fase della routine, quando i meccanismi sono oliati e le sorprese ridotte al minimo. Non c’è una ricetta unica o un metodo infallibile per non annoiarsi, così a volte si ascolta musica, a volte si ascolta la bicicletta, a volte si ascolta la natura, che è sicuramente quella che ha più da dire. Confesso però che nei momenti di crisi più nera ho fatto ricorso alle puntate registrate de “La Barcaccia”, la trasmissione operistica “cult” di Radio 3 che farebbe sorridere anche un puma col mal di testa.

C’è poi un punto importante da sottolineare e che non mi stanco mai di ripetere: quando si fa un giro di questo tipo in bicicletta non si è mai soli: anzi! Non dimentichiamo che i vari percorsi per attraversare gli Stati Uniti sono tracciati accuratamente da Adventure Cycling, le cui mappe utilizzo anch’io.

Questo significa che per la strada ci sono tante persone che seguono lo stesso tracciato e che, fatalmente, finiscono per passare negli stessi posti e incontrarsi. È esattamente quello che mi è successo.

Partito in solitaria, dopo qualche giorno ho incontrato il gruppo organizzato da Adventure Cycling, composto da una dozzina di ciclisti e due guide che li inquadrano e guidano un pulmino con i bagagli, di campeggio in campeggio.

Poi è stata la volta degli altri “solitari”, sia quelli che fanno la mia strada (ovest-est), che quelli che fanno il percorso inverso e sono fonte preziosa di informazioni (strade interrotte, cani randagi, campeggi buoni…). La tendenza è quella di fare gruppo, e questo ha sicuramente i suoi vantaggi: incontro con persone che hanno almeno un interesse comune (i viaggi in bici), solidarietà in caso di problemi, compagnia nei momenti di solitudine, ecc.

Per quanto mi riguarda, però, ci sono anche molti svantaggi, primo fra tutti quello della perdita di libertà: la libertà di fermarsi a fare una foto quando si vuole, di partire (o no) la mattina quando si è pronti, di pensare alle proprie faccende senza interruzioni e via di questo passo.

Negli ultimi tre giorni, per una serie di circostanze, si è formata man mano una specie di Armata Brancaleone composta da:

-Ron, californiano liberal. Mi ha aiutato con la ruota e gliene sono grato, ma è convinto che le sue barzellette facciano ridere. Errore! Porta lo specchietto retrovisore attaccato al casco.

Non ha le sacche laterali, bensì il rimorchio d’alluminio, su cui porta un carico notevole.

Unico inconveniente: i carrettini hanno tutti, dietro, un’asta flessibile con bandierina, per aumentare la visibilità. Chi sta dietro rischia di perdere un occhio a ogni folata di vento.

-Jerry, viene dall’Oregon, 69 anni. Appassionato di camminate, l’anno scorso era sulle Dolomiti, a Cortina e a Verona a vedere l’opera. Una persona taciturna, ma divertente e deliziosa.

-Todd, viene dal Connecticut, ma i suoi bisnonni erano di Campobasso. Dieci anni fa è sopravvissuto a un tumore al colon e adesso fa la traversata per beneficenza in favore di un istituto oncologico. È un pompiere, per cui ogni volta che passiamo da una caserma ci si ferma per fare lo scambio dei gagliardetti. In America ci sono tante caserme. Dalle prime luci dell’alba e fino a tarda notte è in contatto telefonico con la moglie. Fortunatamente, spesso non c’è campo.

– George, viene dall’Illinois. Ex-marine, è partito che aveva l’aspetto di una persona seria. Si è lasciato crescere la barba e i capelli e gli sceriffi di varie contee lo tengono d’occhio. Ha il rimorchio con bandierina anche lui.

– Jimmy, non so niente di lui. L’ho visto solo tre volte. La prima era inferocito con i suoi compagni di viaggio che l’avevano abbandonato.

La seconda non voleva proferire parola. La terza non smetteva di parlare.

-Karman, canadese. Sono veramente contento di dividere a volte la strada con lui. Paziente, geloso della sua privacy e di quella altrui, altruista e interessante.

– “Quella sporca dozzina” di Adventure Cycling.

Sono un gruppo eterogeneo al massimo, con partecipanti dai 25 ai 73 anni.

Dire eterogeneo è niente: ce n’è uno che la mattina parte sempre per primo, non si ferma a fare una foto e cerca di arrivare il prima possibile al campeggio.

Poi si mette ad aspettare gli altri, neanche fosse una corsa a tappe!

Le signore del gruppo corrono sempre in gruppo, per solidarietà femminile, ad eccezione di una che gira assieme al figlio e manda tutti giù di testa perché fa tre pedalate e ferma le gambe, tre pedalate e riferma, e via di questo passo per tutto il giorno.

I due ultrasettantenni sono i migliori. Sembrano i due vecchietti del Muppet Show che criticano dal palco: sono un ex giornalista e un ex poliziotto californiano della stradale, che viaggia con una bici cosiddetta recumbent, cioè con posizione di guida reclinata e parabrezza. Alla fine della tappa sono i primi a stappare le birre!

Poi c’è uno con i baffi che corre per una associazione che sponsorizza la lotta contro il morbo di Alzheimer. È gentilissimo, ma ha posizioni oltre l’estremità destra della destra estrema. Si nutre solo di Fox News, che quanto a “obiettività” non ha rivali: e dà dei punti a Emilio Fede. Con lui ormai si parla solo di cucina, del tempo e di sport.

Dulcis in fundo, Ely (pronuncia Ilày), che nonostante le coclee artificiali collegate direttamente al cranio, continua a non sentire quasi niente. Da quel che mi dicono i componenti del gruppo, l’apice del parossismo è alla mattina, quando Ely/Ilày occupa l’unico bagno del campeggio per 40 minuti e non sente le proteste degli altri che battono sulla porta.

Se non esistesse bisognerebbe inventarlo: è una persona gentilissima e sempre disponibile. La sera arriva regolarmente oltre il tempo massimo, seguito a ruota dalla guida, livida di rabbia perché si ferma ad ogni pipì di cane per fare foto.

Ad Austin ha abbandonato la bici normale e si è presentato con un trabiccolo allucinante. Sembra una “recumbent”, ma ha i pedali e il cambio collegati alla ruota anteriore. Pare una bici da circo ed è di marca Silvio (giuro!). La polizia l’ha fermato già due volte, perché vacilla per la strada e pensavano fosse ubriaco.

Poi ci sono i due leader del gruppo, che non ne possono più. Fanno a turno a guidare il pulmino e a raccogliere i superstiti in fondo al gruppo, che gruppo non è, perché ognuno va al suo passo. La sera si vendicano con ferocia, dando ordini ai due malcapitati che a turno devono fare la cucina per tutti.

Il riferimento alla “sporca” dozzina non è casuale. In America ci sono tanti posti dove ti lasciano campeggiare per pochi soldi, ma spesso mancano le docce.

Ora, è chiaro che con una compagnia di giro del genere può far piacere incontrarsi ogni tanto per la strada, bere una birra se si è nello stesso albergo o scambiare idee sull’itinerario e sul tempo. Ma non ho fatto tutti i sacrifici e l’allenamento che ho fatto per ritrovarmi ingabbiato nel viaggio di qualcun altro.

No, questo viaggio è troppo bello per permettere a chiunque di rubarmelo.

Oggi ho salutato tutti e mi sono fatto cinquanta chilometri controvento da solo, al passo che mi pareva, senza preoccuparmi se gli altri seguivano o se dovevo aspettare che qualcuno facesse una telefonata o una foto.

Finalmente, mi sono rimpossessato del viaggio.

Il viaggio è mio e me lo gestisco io!

Ps: ogni primo di maggio festeggio il compleanno, ma non è che invecchio.

Divento solo cronologicamente più svantaggiato.

Come regalo, mi prendo un giorno di riposo dal blog. A dopodomani

Ppss: il mio numero di telefono belga 0032 475 710525 da qualche giorno non funziona. Non so perché.


View G 38 Washington (LA) – Simmesport (LA) in a larger map
[alert close=”no”]G 38 Washington (LA) – Simmesport (LA) 92 km[/alert]

… perché non sanno quello che mangiano

Nota bene: in questo post “cucina americana” significa quello che ho mangiato nei villaggi che ho attraversato in California, Arizona, Nuovo Messico e Texas.

In Luisiana c’è ancora speranza.

A scuola ci hanno insegnato che la grammatica italiana prevede diversi gradi per gli aggettivi.

Per illustrare il concetto, prendiamo come esempio una frase qualunque costruita attorno all’aggettivo “cattivo”:

– Grado positivo: la cucina americana è cattiva

– Grado comparativo di maggioranza: la cucina americana è più cattiva/peggiore di quella di mia mamma

– Eccezione: il grado comparativo di minoranza e comparativo di eguaglianza non si applicano a questa frase, perché non riesco a trovare niente di uguale o peggiore.

– Grado superlativo relativo: la cucina americana è la più cattiva fra tutte le cucine al mondo.

– Grado superlativo assoluto: la cucina americana è cattivissima/pessima.

Ora, per rendere appieno il livello di quello che ho mangiato fino a due-tre giorni fa occorre che l’Accademia della Crusca autorizzi l’aggiunta di un ulteriore grado dell’aggettivo, il cosiddetto “grado Zelig”.

Così si potrà finalmente dire, senza paura che la maestra ci corregga con la matita rossa, che la cucina americana “fa cagarissimo”.

In realtà non è neanche giusto parlare di cucina americana, nel senso che la cucina è stata appaltata: una parte è stata affidata all’estero, soprattutto al Messico, quell’altra è monopolio di una serie di multinazionali che garantiscono l’approvvigionamento nutrizionale di una buona fetta di cittadini.

Non di tutti, è vero. Aprendo bene il portafoglio, soprattutto nelle città di dimensioni importanti si riesce a mangiare decentemente, nel senso che esiste quello che noi chiamiamo un ristorante e soprattutto esiste la varietà della scelta.

Ad Austin, El Paso, Phoenix, tanto per fare qualche esempio, si trova un po’ di tutto: il giapponese che fa sushi, o l’indiano col suo tandoori, persino un italiano vero.

Addirittura ci sono negozietti specializzati che vendono prodotti bio, anche se il pagamento richiede un certo numero di pepite d’oro!

Il vero dramma riguarda tutti gli altri posti, l’America profonda dei villaggi dove transita e pernotta l’incauto ciclista. Qui non c’è scelta: o messicano o fast food. Tertium non datur.

Cominciamo dal primo: messicano o Tex-Mex? Non lo so, è da quando sono partito che sento favoleggiare del Tex-Mex come di una prelibatezza. Avrò chiesto a cento persone e nessuna mi ha saputo dare una risposta precisa. La mia conclusione è che Tex-Mex vuol dire prendere le ricette messicane, rovinarle aggiungendo ingredienti locali e fare le porzioni più abbondanti.

La prima volta che ho visto il menù di uno dei centomila locali dove si mangia “messicano” (o Tex-Mex?), sono rimasto colpito dal numero di piatti apparentemente diversi: tacos, enchiladas, tamales, burritos, chimichangas, nachos, tortillas ecc.

Ho cominciato, in mancanza d’altro, a ordinarli uno alla volta e sempre di più avevo questa sensazione di déjà vu, anzi di déjà mangé. Dopo qualche giorno ho capito il perché: sono tutti fondamentalmente uguali.

Il principio è che si prende una tortilla, cioè una piadina estremamente sottile (si può scegliere tra frumento e mais), ci si spalma sopra qualcosa e si aggiunge qualcos’altro. Il contorno è riso. Punto.

È un po’ come in autogrill, dove ai panini danno un nome di fantasia, ma sempre panini restano.

E adesso il fast food. C’è poco da dire: per tanta, troppa gente è il cibo ideale, che combina pragmatismo (cioè il tempo perso a mangiare), sedentarietà e risparmio. Gli hamburger sono invitanti, con quel panino caldo, morbido e impregnato di sughetto grasso, quelle due foglioline di insalata che fanno bene alla coscienza e quel conto leggerissimo alla fine. Compri uno e prendi due, addirittura mi sono imbattuto in una terrificante “happy hour” degli hamburger dalle due alle quattro del pomeriggio, durante la quale (giuro, ho chiesto), paghi uno e prendi tre.

Per giunta i locali sono praticamente sempre aperti, spesso 24 ore al giorno e in genere sono muniti del drive-in: uno arriva in macchina allo sportello, ordina, paga e aspetta che gli venga consegnata una sportina di plastica con dentro il pranzo. Un ampio parcheggio consente di consumare senza neanche scendere dal veicolo. Tempo dieci minuti e il pieno di calorie è fatto.

Il più spaventoso, per me, è KFC, quello del pollo fritto. Una sera ho ordinato il petto di pollo; mi hanno dato tre pezzi indefinibili di roba morbida e unta. Sembrava il film “Il bello, il brutto e il cattivo”: infatti uno era discreto, uno puzzava e il terzo sembrava una quaglia. Intera. E avrei dovuto pure mangiare senza posate, in una scatola di polistirolo e berci dietro una pepsi. Mi sono detto che a certe condizioni è meglio la fame, e me ne sono andato.

Dimenticavo che la scelta di bibite nei locali fast food è limitata a quelle bevande che gli americani chiamano, con termine generico, “soda”.

Sono le stesse bibite che si trovano dal benzinaio di cui parlavo ieri, tutte gassate, tutte dolciastre, tutte profondamente sbagliate da tutti i punti di vista.

I primi giorni mi ostinavo a chiedere un’acqua gassata, con scarsissimo successo: i venditori di hamburger non sanno nemmeno cosa sia.

Per non farsi soffiare una fetta di mercato importante, qualcuno ha pensato bene di giocare al rialzo e di aprire catene di “fast food messicano”, combinando così i difetti dell’uno con le disgrazie dell’altro.

Tralascio i dettagli e gli incroci alimentari pericolosi che mi sono visto propinare.

Dirò solo che una delle catene in questione si è scelta un nome nobile, anzi principesco. Sai la soddisfazione: posso finalmente dire che sono stato a cena da Filiberto!

Siparietto finale:

Per passare inosservati nei posti chic, bisogna sapere quale acqua minerale va di moda. In California si chiede una “Club soda”, oppure una “Perrier”.

Le mie prime conversazioni sono state del tipo:

Emilio: Hi, I would like some sparkling water, please.

Cameriere: Sorry, what’s that?

E: Well, fizzy water…

C: You mean a soda?

E: No, plain water, but…

C: You mean fresh water?

E: Yes… no, I mean fresh water with bubbles

C: You mean a Pellegrino?

E: Exactly, a Pellegrino, please !

Quindi, per un bicchiere di minerale frizzante si chiede una “Pellegrino”.

Evitare il “San” perché confonde, per così dire, le acque.


View G 37 Mamou (LA) – Washington (LA) in a larger map
[alert close=”no”]G 37 Mamou (LA) – Washington (LA) 50 km[/alert]

L’impressione terribile che ho raccolto attraversando California, Nuovo Messico, Arizona e Texas è che l’America profonda faccia una tremenda confusione fra combustibile e nutrimento, fra carburante e cibo.

E così, prima ancora di parlare di cucina, occorre spiegare come è fatto uno dei luoghi più frequentati da chi vuol fare il pieno: la cosiddetta “gas station”, cioè il distributore di benzina.

Non è un caso se anche la più scalcinata delle stazioni di servizio che ho incontrato sulla mia strada vende una serie di prodotti che rientrano, anche solo di sbieco, nella categoria dei generi alimentari. Capiamoci: non si tratta di mini-versioni dei nostri autogrill, che andrebbero più che bene. È altro, molto peggio.

Intanto, questi distributori sono spesso aperti 24 ore su 24, tutto l’anno, per cui inconsciamente uno sa che a qualsiasi ora del giorno e della notte può andare a cercarsi qualcosa da mettere sotto i denti. Risultato: si mangia di tutto a tutte le ore. Vediamo come è strutturato il negozio del distributore.

Sezione caffè: entrando si nota subito un tavolo con una termopiastra che tiene calda un’anfora o un termos di caffè già fatto; oppure, ci sono delle macchinette automatiche che, a richiesta, servono un intruglio trasparente che viene spacciato per caffè. Di fianco, vari contenitori in plastica che contengono zucchero e una polvere bianca (creamer) che fa le veci del latte. Una pila di bicchieri di polistirolo usa e getta con coperchio e una confezione di cannucce completano il quadro.

Più di una volta mi sono ridotto a fare colazione in questi posti, non perché mi piacessero, ma perché non c’era nessuna alternativa: quindi, “caffè” trasparente e merendine dolciastre ai gusti più incredibili. Come inizio di giornata non c’è male!

Sezione bevande sfuse: Il distributore automatico di bevande c’è quasi sempre, anche se assume forme diverse. Purtroppo non cambia mai il contenuto: prodotti che conosciamo (fanta, coca, sprite, pepsi…) e altri che per fortuna non conosciamo ancora (dr. pepper, root beer, powerade…). Tutti gassati, tutti dolci. L’americano medio prende il bicchiere più grande, lo riempie a metà di ghiaccio (sempre disponibile!) e versa la bibita. Spesso il secondo giro è gratis. E l’acqua? Neanche a parlarne.

Sezione bevande: Una mezza parete è presa dalle bevande gassate di cui sopra, ma stavolta in bottiglia. In un piccolo frigorifero si trovano il latte (recipienti da un gallone, 4 litri), i succhi di frutta e l’acqua, che è più cara dello champagne ma è solo acqua di rubinetto purificata (infatti c’è stato uno scandalo non indifferente su questa cosa). In un secondo frigorifero ci sono le bevande energetiche, sollievo dei ciclisti stanchi: personalmente ho provato di tutto, dal Gatorade in tutte le sue versioni, al Powerade, al Red Bull, al Monster Energy, ai flaconcini monodose che assicurano “energia per cinque ore”. Sono tutti ottimi. Il solo dettaglio è che la mattina dopo il pigiama sa di arancia (o di limone). Dipende da cosa si è bevuto il giorno prima in salita.

Sezione “alimentare”: sacchi di patatine di tutte le forme e dimensioni, merendine a sfinire, cioccolata, burro di arachidi, caramelle e dolciumi confezionati e sfusi. Poi alimenti inscatolati: spaghetti liofilizzati in salsa Alfredo (?), pesche, pomodori, piselli e carote in barattolo, la mitica “baloney” (vedi G-12), e l’angolo del gourmet, composto da pizza o hamburger congelati e apposito forno a microonde per riscaldarseli da soli. Nei negozi più forniti si trovano anche noci e noccioline varie, a volte banane e un altro pilastro della dieta di Tex e Carson quando devono attraversare il Deserto Dipinto: il pemmican, cioè la carne secca, in genere affumicata, un tempo di bisonte, oggi di vile manzo speziato. Verdura zero.

Sezione farmaceutica: uno sguardo ai nomi dei prodotti vale più di qualsiasi commento: Maalox (in bottiglioni), Acid Reduce, Acid Control, Gaviscon (in taniche!), No Burp, Decongestil, Super Transit, Transit Easy, Go Go Go!, Happy Colon, Morning Release, Digest-All, Deep Clean e via di questo passo.

Sezione alcolici: quasi tutte le pareti sono occupate da frigoriferi pieni della vera, unica bevanda alcolica di riferimento in America: la birra. La birra si vende soprattutto in pacchi da 6, 12, 18 o 24 barattoli di contenuto variabile. Il barattolo più capiente contiene 32 once, che al cambio fanno la bellezza di quasi un litro. Ora, il problema è che l’apertura da cui si beve aumenta, chissà perché, in funzione del contenuto. Ho provato a bere da un normale barattolone da un litro e mi sembrava di essere nella vecchia barzelletta della rana dalla bocca larga: ho provato di tutto, ma mi sono sbrodolato la maglia!

Ci sono tanti produttori, ma nove volte su dieci la birra è quella: bionda, gelata e molto alcolica, anche se non si sa quanto. Mentre scrivo, sto bevendo una Old Milwaukee e, per quanto cerchi, non trovo indicato il tenore alcolico. Questo è molto grave, soprattutto da quando ho scoperto che le birre “leggere” fanno tra i 5 e i 6 gradi. Il che spiega che a farmi girare la testa non è la finale di Champions .

Poi c’è la birra in bottiglia, che vi permette di fare un figurone con le ragazze. Quasi tutte (le birre) hanno il tappo a corona, ma in realtà questo è avvitato alla bottiglia. Allora, con finto sprezzo del dolore si afferra il collo della bottiglia, si fa una smorfia di sforzo e il tappo a corona si svita come niente. La prima volta che l’ho visto fare pensavo che il tipo mingherlino davanti a me fosse il Grande Hulk in incognito. E invece… Però attenzione: alcune bottiglie hanno veramente il tappo a corona e lì si rischiano dieci punti al pronto soccorso.

L’importanza del galateo: la birra va bevuta freddissima e direttamente dal barattolo o dalla bottiglia. Questa sembra essere la regola del sud, bar, caffè e ristoranti compresi. Per l’acqua vi danno un bicchiere a metà colmo di ghiaccio, ma per la birra no. Il vero cowboy e la vera cowgirl bevono a garganella e se chiedete un bicchiere vi guardano storto.

Poi ci si mette anche la legge, che mi fa dire che il retaggio del puritanesimo è ancora ben presente nelle sue forme più ipocrite, per non dire ridicole. Tre esempi:

Primo: mi capita spesso la sera, prima di arrivare al motel, di fermarmi al distributore a comperare una bella birra con cui celebrare i chilometri fatti. Ebbene, il benzinaio/cassiere è tenuto a mettere il barattolo in un contenitore qualsiasi, affinché non sia visibile quando esco dal negozio. Di solito opta per la soluzione meno costosa, cioè un sacchettino di carta marrone o una sportina di plastica scura. Davanti al locale non posso bere, devo allontanarmi e in ogni caso devo bere col barattolo sempre dentro al sacchettino, pena una multa!

Secondo: esiste un numero di cosiddette dry counties, o contee asciutte, nelle quali non si può vendere e/o consumare alcool. L’origine di questo moderno proibizionismo, nonché bell’esempio di rossiniana inutil precauzione è per lo più religiosa, dato che molte confessioni cristiane Protestanti scoraggiano il consumo di alcool ai loro fedeli. Il problema è che lo impediscono anche ai non fedeli, e qui avrei da ridire.

Prendiamo il Texas, tanto per cambiare: su 254 contee, 30 sono asciutte, 182 parzialmente asciutte e 42 bagnate. Quelle bagnate sono, per fortuna, nella zona al confine col Messico dove sono passato io. La confusione è totale: in alcune contee la birra è legale fino a 4 gradi, in altre si arriva al triplo! Da alcune parti basta diventare membri del bar, anche se si è di passaggio. E il bello è che da studi recenti risulta che gli abitanti delle contee asciutte hanno un tasso di mortalità da incidenti stradali più alto, perché si pappano decine e decine di chilometri per poter andare a bere fuori contea e poi si schiantano tornando a casa!

Terzo: quasi tutti i locali in cui ho mangiato non servivano birra o alcool di nessun tipo. Perplesso e un po’ nervoso a forza di mangiare hamburger con il tè, ho cominciato a chiedere spiegazioni e la risposta mi ha lasciato stupefatto: “Qui vicino c’è una scuola…”. Oppure: “Di fronte c’è la chiesa!”.

Incredulo, ho verificato la legge che si applica in Luisiana, così come da tante altre parti. Dice testualmente la legge: “Nessuna licenza o permesso saranno concessi quando il locale (…) si trova a meno di 300 piedi (= 91 metri e 44 centimetri) da edifici adibiti a luogo di culto (chiese e sinagoghe), biblioteca pubblica, scuola (ad eccezione di un’università), orfanotrofio, parco pubblico, centro di assistenza giornaliera (…). La distanza di trecento piedi sarà misurata come da articolo 26 dello Statuto della Luisiana (…).

Anche nella ridente cittadina (e non borgo!) di Cotignola è d’applicazione la legge americana dei trecento piedi fra bar e chiesa.

Ma tutto dipende dal metro che si usa: l’ufficio tecnico del Comune ha stabilito che se un millepiedi è lungo dieci centimetri, trecento piedi sono 3 centimetri.

E così si può bere tranquillamente un prosecco sotto il loggiato del Comune rispettando la legge, e allo stesso tempo ammirare la facciata della chiesa di Cotignola, lì di fianco.

Salute!


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[alert close=”no”]G 36 De Ridder (LA) – Mamou (LA) 109 Km[/alert]

Non sono un popolo; ma una tribù molto numerosa lo sono di sicuro. Sono i centauri delle moto per antonomasia: le Harley Davidson.

Metto a tacere subito quelli che pensano che non mi va mai bene niente, e garantisco che la prossima volta che attraverso l’America lo farò senz’altro a cavallo di uno di questi mezzi mitici.

Si può affermare, usando un’immagine che si capisce in tutto il mondo, che una Harley Davidson sta alla highway, la autostrada americana, come il prosciutto di Parma sta alla piadina: semplicemente perfetto.

Detto questo, vediamo il perché. Intanto, una moto di questa marca ha praticamente le dimensioni e il peso di una macchina di piccola cilindrata. Il modello “Fat boy” (nomen omen), pesa a secco 323 chili, tanto per dare un’idea. Quindi, se il pilota perde leggermente l’equilibrio e la moto gli cade, occorre il carro attrezzi per rimetterla in strada.

La manutenzione è cara, almeno così mi dice chi la guida, perché ad ogni tagliando occorre serrare tutti i bulloni, altrimenti si perdono i pezzi per strada. Il consumo è quello di una petroliera di stazza media.

Capitolo decibel. Una Harley necessita di grandi spazi. La sentite arrivare da distanze inverosimili e la prima cosa a cui pensa l’orecchio non allenato, come era il mio all’inizio di questa avventura, è che stia tuonando in lontananza.

Poi il rumore si avvicina e ci si rende conto che non è un rombo, bensì una serie di esplosioni ritmate, che si succedono a intervalli regolari, un po’ come la salva di cannoni il giorno della festa della liberazione.

Per gli amanti delle corse in moto, dirò che le Harley mi hanno fatto andare indietro nel tempo, fino a quando Giacomo Agostini vinceva tutti i campionati possibili e immaginabili. Ricordo che quando correva a Imola, la sua MV Agusta si sentiva arrivare già da due curve prima della Tosa, dove ero appostato.

Poi si sentiva un’altra moto, che i tifosi locali, fini esegeti, avevano soprannominato “il Landini”, memori dell’omonimo trattore a testa calda il cui motore dava uno scoppio ogni tanto. Oggi fa ridere solo a dirlo, ma era una Ducati, guidata, se non ricordo male da un certo Baroncini, che arrivava sempre ultimo. Ecco, le Harley fanno esattamente quel rumore!

Capitolo spesa. Una Harley va dai 6.000 ai 20.000 dollari e passa.

Per cominciare.

Poi arrivano le spese vere, che consistono nella personalizzazione, ovvero nel renderla irriconoscibile e in ogni caso diversa da qualunque altra in circolazione.

Si cambiano il manubrio, i parafanghi, il parabrezza e le luci. Si ordinano le borse in pelle di caimano triste o di bufalo albino con borchie cromate o chiodate di rame, di palladio o di tungsteno dell’Himalaya.

Si modificano le sospensioni e si “bomba” il motore, che altrimenti è bolso come un cavallo con l’enfisema. Si montano degli pneumatici larghi come quelli di un TIR e da ultimo si sostituisce la sella con una poltrona Frau. Le banche sono molto contente di prestare soldi all’acquirente di una Harley, perché sanno di avere un cliente indebitato per la vita.

Poi c’è da comperare il guardaroba, e qui, ad essere sinceri, si può anche andare sull’usato, purché strano.

L’unico vero, grande risparmio è il casco, che non è obbligatorio in nessuno dei quattro stati che ho attraversato finora. E d’altra parte è giusto così. Il vero centauro Harley non metterà mai, dico mai, un casco in testa. Perché? Perché la testa si può, anzi si deve, fasciare solo con una bandana, di preferenza nera e arabescata con simboli esoterici, tipo teschi, pugnali, fulmini o corpi femminili.

Il look ha un solo, inimitabile modello: il gruppo rock degli ZZ Top. Per cui occorre avere:

– Barba lunga incolta, meglio se brizzolata. Bianca è il massimo.

– In alternativa, capelli raccolti a coda di cavallo, oppure cranio rasato per chi soffre di calvizie.

– Occhiale scuro obbligatorio, meglio se a specchio.

– Orecchino/i e/o collane che riprendono i motivi della bandana.

– Giubbotto rigorosamente di pelle, ma è ammesso lo scamosciato con frange, tipo Kit Carson.

– Pantalone di jeans; la pelle fa troppo fighetto e anche troppo caldo. Il jeans permette lo strappo in zona rotulea e la tasca posteriore sfondata, con portafogli che sembra sul punto di cadere e invece è tenuto su da una catena!

– Mezzi guanti in pelle nera. Borchie opzionali.

– Fazzoletto al collo opzionale, ma consigliato, in tono con la bandana.

– Catene e catenelle ciondolanti.

– Borchie un po’ dappertutto.

– Stivale in pelle, in tono con il colore della moto. A proposito, i puri e duri vogliono la Harley nera.

– Da ultimo, ma terribilmente importanti, i tatuaggi, specie sulle braccia. Se mettete su un manubrio alto (che a ogni pieno occorre il fisioterapista per sbloccarvi, ma per il mito questo e altro !), è cruciale che i tatuaggi siano fatti sul lato interno degli avambracci, così da essere ben visibili per chi vi incrocia!

Bardati in questa maniera, i centauri si presentano da McDonald assieme alle loro “girls” con delle ghigne da far paura: sguardo torvo, mascella protesa in avanti che quando piove l’acqua entra in bocca, passo deciso.

Ma qui casca inevitabilmente l’asino. Infatti il centauro e la sua girl (mai vedrete due uomini su una Harley!), hanno abbondantemente superato gli “anta”.

In certi casi, guardando i riporti della pelle, si potrebbe pensare che siano oltre gli “ento”, ma forse esagero. Lui è spesso oltre i 150 chili, lei gli sta a ruota. Le bocche serrate in una smorfia di disgusto nascondono voragini fra i molari e abbondanti otturazioni. E dietro gli occhiali le borse sotto gli occhi sono grandi come quelle della moto. E pure loro di pelle.

Morale della favola: non ho mai trovato dei padri e madri (anzi nonni) di famiglia più simpatici di questi viaggiatori Harley-muniti.

Basta avvicinarsi con circospezione e dire: “La sua moto è bellissima, posso fare una foto?” e loro, tempo tre secondi, si sciolgono, si tolgono la bandana e gli occhiali, ti raccontano quanto consuma, quanto costa, quanti chilometri fanno, quante volte rimangono a piedi. Ti direbbero tutto e ti darebbero tutto, fuorché l’Harley, ovviamente. Ti darebbero persino la “girl”.

Ma in quel caso è meglio la bicicletta !

Ps: Concorso a premi: Una delle foto ritrae un centauro finto-americano. Potrebbe trattarsi della foto di un uomo o di una donna. A voi trovarla. Il fortunato estratto vincerà un giro in Harley da S. Lorenzo di Lugo a Milano Marittima e ritorno.

La benzina e la piadina per il/la pilota ce li metto io.

Ppss: Domani tappa breve per recupero fisico e turismo. Giornata di riflessione per trovare nuovi argomenti da trattare. Se avete suggerimenti scrivetemi. E se non ne avete, scrivete lo stesso!

Forse il blog salterà un giorno.


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[alert close=”no”]G 35 Silsbee (Tx) – De Ridder (LA) 127 km[/alert]

Beep Beep!

E così, dopo venti giorni esatti, abbandono il Texas, il secondo stato dell’Unione per grandezza. Mi porto via un tale tumulto di informazioni, sensazioni e ricordi che avrò bisogno di un po’ di tempo per rimetterli in ordine.

Non posso certo dire che venti giorni bastino per scoprire questa terra immensa, ricca e bellissima. Sono serviti solo a grattare un po’ la prima pelle, per farsi un’idea di cosa ci sia in fondo a quelle strade tanto diritte da sembrare infinite e quali pensieri si nascondano sotto i cappellacci da rudi cowboy che la gente ostenta con tanta normalità.

Mi aspettavo un altro Texas prima di attraversare la frontiera. Mi aspettavo il caldo e ho trovato una primavera piovosa; mi aspettavo il deserto e ho trovato boschi, fiori, pascoli e campi lussureggianti; mi aspettavo gente scontrosa e sbrigativa, e ho trovato persone nell’insieme disponibili e gentili; mi aspettavo di mangiare male e invece ho mangiato solo malino .

È bello il Texas, niente da dire. E nella vastità del suo territorio, dalle catene montuose agli altipiani aridi, giù giù fino alla costa del Golfo e fino alla zona delle foreste, incantano da una parte la varietà dei paesaggi, della flora e della fauna, e dall’altra le continue incursioni della storia che si ripropone in ogni momento, essendosi appropriata ormai per sempre di nomi, luoghi, fiumi e personaggi.

E il texano che ho incontrato io avrà pure, come nelle caricature, lo Stetson in testa, gli occhiali a specchio, gli stivaletti a punta e le gambe curve anche se non sa più cavalcare, ma la mia sensazione è stata quella di un’ostentazione difensiva, una barriera, una metaforica crema solare a protezione 100 contro gli UVA del mondo che gli cambia attorno.

Perché anche il Texas ha vissuto e vive delle contraddizioni molto grandi.

Era uno stato democratico e ora è un bastione conservatore; eppure nutre una realtà eretica come la sua capitale, Austin, che esula completamente dagli schemi del territorio.

E la Del Rio che ho trovato così brutta, mal tenuta e inospitale è la stessa città che negli anni ‘60 fu patria di Wolfman Jack, il mitico disc jockey immortalato in American Graffiti, colui che lanciò la grande moda del rock ‘n roll in tutto il paese, e da lì nel mondo. Pensate che, trovandosi appunto Del Rio sul confine, Jack fu costretto ad installare sul suolo messicano i ripetitori della sua radio, alti un centinaio di metri, che trasmettevano con una potenza di cinque volte superiore a quella permessa dalle autorità americane!

Questo è il paese dove convive una sensibilità ecologica ridottissima quando si parla di consumi petroliferi e riciclaggio, ma allo stesso tempo si salvaguardano i grandi parchi naturali, come quello del “Big Thicket” (la grande macchia) che ho attraversato per tutta la giornata di ieri. A fine ‘800, questa foresta enorme copriva un territorio di 160 x 80 km, impenetrabile rifugio di renitenti alla leva, bande indiane e malfattori assortiti. L’abbattimento indiscriminato per decenni, a fini industriali, lo ridusse al collasso e oggi si cerca di gestire in maniera intelligente la riserva di conifere e alberi indigeni che restano.

Una grossa delusione è stata quella di non riuscire a vedere dal vivo due degli animali simbolo del paese: l’armadillo e il road runner, o corridore della strada.

Il primo ce lo ricordiamo tutti dai libri di scuola come l’animale protetto da una corazza inviolabile che lo protegge da qualsiasi predatore quando si appallottola e si nasconde dentro i rovi.

Il secondo è nientemeno che il Beep Beep dei cartoni animati, quello che Vil Coyote cerca in tutte le maniere di acchiappare. Neanche tanto segretamente, abbiamo sempre tifato tutti per il Coyote e per i suoi sotterfugi sempre più assurdi. In mancanza della dinamite ACE, avevo comperato due petardi da una delle tante bancarelle che li vendono tutto l’anno lungo la strada (anche questa una bella stranezza). Speravo in questa maniera di poter fermare un Beep Beep, che in realtà è un uccello parente del cuculo e che ha davvero la caratteristica di correre a tutta velocità davanti ai mezzi meccanici, per spostarsi all’ultimo minuto: quando ce la fa…!

Per dire come industria e natura convivano fianco a fianco, basti ricordare che a lato del mio percorso si trova Spindletop, la collina dove nel 1901 venne scoperto il più grande giacimento petrolifero del mondo (di allora), che diede origine a un immediato boom economico di dimensioni mai viste, che si protrasse per decenni e portò, inter alia, alla nascita della Texaco.

A fianco della zona petrolifera, a sud della foresta, ecco che invece fa la sua comparsa un’altra grande fonte di reddito del paese: la coltivazione del riso, in immensi campi opportunamente allagati grazie a moderne tecniche di irrigazione. Insomma, un rimpallarsi continuo fra le attrazioni della modernità e i richiami della tradizione.

E tanto per richiamare un nome, oggi sono passato da Kirbyville, città al confine con la Luisiana. Alla fine dell’800 fu teatro di una faida tra famiglie del luogo che degenerò in un conflitto senza soluzione apparente. La soluzione la trovarono i colleghi di Tex (essendo lui impegnato nella ricerca di Apache Kid). I rangers del Texas infatti, chiamati dalla popolazione esasperata, diedero vita a un conflitto a fuoco in cui decimarono le famiglie impegnate nella disputa, che infatti finì immediatamente. Altri tempi, altri metodi…

Si diceva dei rangers che “sapevano cavalcare come i messicani, sparare come cecchini e combattere come il diavolo in persona”. Dei bei tipi, non c’è che dire! Furono anche il primo gruppo di tutori della legge a usare con “profitto” la Colt a 6 colpi in Texas.

E un bel tipo, che ha fatto la storia del West, è sicuramente Buffalo Bill. Da queste parti si ricorda che contribuì ad aprire la cosiddetta pista di Chisholm per portare alla stazione di Wichita le mandrie di Longhorn destinate al resto del paese.

Noi tutti ne abbiamo sentito parlare per le sue avventure e per il suo mega circo-spettacolo sul West, che lo rese ricco e celebre in tutto il mondo e al quale presero parte, interpretando sé stessi, anche Toro Seduto e Geronimo. Lo volevo ricordare rapidamente per alcuni aneddoti simpatici che riguardano l’Italia.

Ho letto da varie parti che Buffalo Bill portò in tournée il suo spettacolo anche in Italia, precisamente a Roma nel 1890. Si narra che, vedendo lo show, il Conte Caetani di Sermoneta avesse l’idea di una gara con scommessa in denaro (mille lire di allora) tra i cow-boys americani e maremmani, ove i butteri maremmani dovettero domare i cavalli dei cow-boys americani e vice versa. Inutile dire che vinsero i butteri, altrimenti non avrei raccontato l’aneddoto. Sembra anche che Buffalo Bill, indispettito, anzi imbufalito, abbia tolto letteralmente le tende senza mai pagare la scommessa.

Oggi giorno uno spettacolo del genere non lo assicurerebbero nemmeno i Lloyds di Londra, tali e tanti erano i rischi che correva anche il pubblico fra cavalli imbizzarriti, mini cariche di bisonti, rodei, lanci di frecce e coltelli ecc. Poi c’era la mitica signorina Oakley, che si esibiva sempre prima di Buffalo Bill in persona. Il suo numero? Spegnere la sigaretta in bocca agli altri attori del “circo” sparando con la pistola da una distanza di 30 piedi.

Fu così che, per far fronte alle richieste della sua troupe preoccupata non tanto dei danni del fumo, quanto della mira della signorina Oakley, Buffalo Bill tirò fuori l’asso nella manica: un leone.

Ma non un leone ammaestrato qualunque, bensì l’unico che poteva dargli una garanzia dall’alto: Leone XIII, il Papa, che acconsentì (è il caso di dire, docilmente) a benedire tutti i partecipanti.

E i Lloyds sottoscrissero l’assicurazione.