A causa di un grave lutto familiare, interrompo questa avventura in terra britannica, ormai giunta a pochi giorni dal suo epilogo previsto.

Voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno sostenuto con tanta partecipazione e tanto affetto leggendo e commentando il blog, animando le pagine Facebook o ancora scrivendomi messaggi personali.

Spero anche che le mie pagine siano servite a far conoscere un po’ di più il lavoro di Ruvuma Onlus (www.ruvuma.it) e ringrazio tutti coloro che hanno contribuito o contribuiranno a sostenere questa associazione di volontari.

Alla prossima

emilio

Vero o falso?

 

Perth-Pitlochry 32 miglia 12-8-2013

Perth-Pitlochry 32 miglia 12-8-2013

Se si inserisce il nome “Perth” in un qualunque motore di ricerca, il primo risultato sarà la città capitale dello stato dell’Australia Occidentale, e non certo la cittadina scozzese da cui sono partito stamane. La cosa è sicuramente giusta in termini numerici, dato che la prima vanta quasi cinquanta volte il numero di abitanti della seconda, e fra loro alcuni amici, come Andrea, Valentina e Maria, che saluto da questo blog.

Australiani?

Australiani?

Però, a me piace ricordare che la città australiana deve il suo nome proprio alla Perth scozzese, che, nel suo piccolo, è stata considerata a lungo la capitale della Scozia, dato che i suoi re o regine venivano incoronati nell’Abbazia di Scone, appena fuori città. Il rito prevedeva l’uso della cosiddetta “pietra del destino”, un pietrone oblungo di un quintale e mezzo, che sarebbe appartenuto, per chi ci crede, nientemeno che a Giacobbe, il quale, secondo la Genesi, l’avrebbe usato come guanciale.

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Un bel giorno, nel 1296, il re inglese Edoardo I pensa bene di appropriarsi del “guanciale” come bottino di guerra (un po’ come la “secchia rapita” dai modenesi ai bolognesi) e di piazzarlo nell’Abbazia di Westminster, a Londra, sotto il cuscino

Trono (con pietra)

Trono (con pietra)

di piume vere su cui si appoggia il fondoschiena reale il giorno dell’incoronazione. Così, tanto per far capire chi comanda tra Inghilterra e Scozia.

L’ultima, in ordine di tempo, a seguire questo rito pluricentenario è stata proprio la regina Elisabetta, nel 1953. E questo, nonostante che tre anni prima la pietra fosse stata oggetto di un “rapimento” in piena regola, che l’aveva vista ritornare, pur spezzata in due, in territorio scozzese, a seguito di un viaggio che fa pensare al film “Tre uomini e una gamba” di Aldo, Giovanni e Giacomo: ricerche su tutto il territorio affidate a Scotland Yard (ironia del nome!), blocchi stradali per intercettare i rapitori, la pietra che si rompe in due pezzi, una festa propiziatoria in una brughiera del nord inglese… di tutto, di più. Ma alla fine, per evitare un conflitto diplomatico, la Chiesa di Scozia decise di rispedirla a Londra.

Un'altra pietra segna il centro del mercato medievale di Perth (quella scozzese)

Un’altra pietra segna il centro del mercato medievale di Perth (quella scozzese)

A prima vista, la storia finisce nel 1996, quando, con soli 670 anni di ritardo, l’Inghilterra ha finalmente deciso di rispettare la promessa, fatta in un trattato del 1326, di rispedire la pietra ai legittimi proprietari in cambio del permesso di continuare ad usarla in occasione delle incoronazioni. La riconsegna dell’ostaggio è avvenuta con tanto di cerimonia ufficiale alla frontiera, alla presenza di dignitari e del Principe Andrea.

Ma il bello della storia è che, secondo studi e scoperte archeologiche recenti, con tutta probabilità, nel ‘200 i frati dell’Abbazia di Scone rifilarono al re inglese una colossale patacca: gli avrebbero consegnato una copia della pietra sacra, oltretutto più piccola dell’originale descritto da documenti dell’epoca. Che tempi! Se risultasse vero, l’episodio sarebbe per me non solo divertente, ma lo vedrei come fondamentale precedente storico al caso fantastico delle finte sculture di Modigliani fatte trovare nel canale di Livorno nel 1984, che beffarono tutti i critici d’arte. Fidarsi è bene, ma non fidarsi (neanche dei frati), è meglio!

Falso d'autore

Falso livornese d’autore

Ma dicevo di Perth 1, quella australiana, che deve il suo nome a Perth 2 (quella scozzese). In effetti, il nome venne scelto nel 1829 per onorare l’allora Ministro delle Colonie, che, guarda caso, era nato proprio a Perth 2. Sarebbe un po’ come se, dopo il terremoto, la “new town” de l’Aquila fosse stata battezzata “Arcore”.
Ma la Perth 2 di oggi ha una caratteristica simpatica, che dovrebbe inorgoglire noi italiani: è una delle cinque città del Regno Unito che hanno aderito al movimento internazionale delle “Città slow”, lanciato a suo tempo da Slowfood, e lo annuncia fieramente anche nei cartelli stradali che accolgono gli stanchi ciclisti come me. L’obiettivo dichiarato è quello di mettere in risalto la produzione agricola del territorio, la sostenibilità ecologica, la biodiversità e, in ultima analisi, il turismo “lento”. Ad onor del vero, Perth 2 mi sembrava già abbastanza lenta di suo, ma tant’è…

Perth - città lenta. Lenta come me

Perth – città lenta. Lenta come me

Comunque, stamattina ho salutato questa piccola città-capitale pedalando per varie miglia lungo una pista ciclabile immacolata, incastonata tra il fiume Tay, attorno a cui si raggomitola la città, e splendidi prati verdi, curatissimi. Fossero tutte così le capitali…

Nonostante abbia fatto poco più di 50 chilometri, sono comunque stanco, perché, insisto a dire a costo di essere noioso, questo paese è tutto un saliscendi e le gambe non apprezzano!

Peggio del Texas

Peggio del Texas

Serata con sorpresa a Pitlochrie, borgo turistico affollatissimo, che deve la sua notorietà al fatto di servire come base o ultima fermata per coloro che visitano le Highlands, le terre alte scozzesi. Nel cortile dell’albergo, la banda del collegio di St. Andrews si prepara alla sfilata e al concerto: sono solo tamburi e cornamuse, ma l’effetto, quando lo si sente dal vivo, è da pelle d’oca.

Banda schierata

Banda schierata

Si capisce in un attimo perché le cornamuse siano state tanto utilizzate sui campi di battaglia: il suono porta talmente lontano ed è così inconfondibile e penetrante (a volte straziante) che può facilmente galvanizzare le truppe, o aiutare a riorganizzarle. Diciamo però che in tempo di pace, una mezzoretta è il mio limite massimo di sopportazione, prima che subentri l’esaurimento.

 

Il direttore d'orchestra

Il direttore d’orchestra

Ciò detto, mi è piaciuta la cura dei dettagli, dall’abbigliamento alla coreografia, dall’organizzazione fino al tecnico che “accorda” singolarmente ogni cornamusa: diciamo che per questa operazione non usa proprio un metodo tradizionale, ma mi ha assicurato che l’iPhone funziona benissimo e gli fa risparmiare un sacco di tempo. E un sacco di orecchio, aggiungo io. Due link per gli amanti del genere cornamusa:

1 Preparazione

2 Esecuzione

Controllo accurato

Controllo accurato

Chiudo in bellezza questa carrellata di tradizioni, leggende, colonie e sovrani, parlando di uno che vorrebbe tanto essere re, ma proprio non glielo fanno fare. No, non parlo di Carlo, che, poveretto, ormai si sarà messo il cuore in pace, ma di un mio coetaneo belga che dichiara di essere l’erede legittimo al trono di Scozia.

Michel Roger Lafosse si fa chiamare Michael James Alexander Stewart of Albany (ancora l’Albania!) e sostiene che la casata reale scozzese degli Stuart non si è estinta, come sostiene ogni storico da 200 anni a questa parte, ma vive tuttora nella sua persona, a seguito di una storia mirabolante di nozze annullate dal Papa, matrimoni segreti e figli in esilio più o meno legittimi. A sostegno della sua tesi, Lafosse/Stewart ha pure pubblicato un libro sulla genealogia “segreta” dei reali di Scozia, firmandosi, ovviamente, come Sua Altezza Reale.

Ma chi è Lafosse/Stewart? Lui vanta il titolo di “Addetto culturale dell’Ambasciata dei Cavalieri di Malta nella Repubblica Democratica di Sao Tomé e Principe”, in Africa.
Pur essendo nato a Bruxelles, è diventato cittadino britannico, grazie al certificato di nascita da cui risulta essere figlio del Barone Gustave Joseph Fernand Clément Lafosse e della Principessa Stewart.

Il libro dell'erede al trono

Il libro dell’erede al trono

Nel 2006 la cittadinanza britannica gli è stata revocata, perché il certificato di nascita è risultato falso.
Lafosse/Stewart allora ha venduto la casa di Edimburgo, ha divorziato ed è tornato a vivere a Bruxelles con la mamma, impiegata di professione.
Il padre si chiama effettivamente Gustave Joseph Fernand Clément Lafosse. Sarà pure barone, ma fa il bottegaio.

Mi sa tanto che in tutta questa storia anche il nostro erede al trono è un  barone.

Nel senso di grande baro

Firmato: Panzio Pelato (autentico centurione romano)

Effetto speciale

Edimburgo-Perth. 48 miglia. 11-8-2013

Edimburgo-Perth. 48 miglia. 11-8-2013

La regola che di solito mi impongo quando viaggio in bicicletta prevede di restare lontano dalle grandi città. Salvo eccezioni. E la capitale scozzese, Edimburgo, è uno di quei posti per i quali un’eccezione è totalmente giustificata, soprattutto se ci si capita, come nel mio caso, durante lo svolgimento del Festival. Ad essere precisi, nel periodo tra fine luglio e fine agosto, di festival ce ne sono due: quello ufficiale, dedicato a opera, concerti e teatro di alto livello, e quello alternativo, il cosiddetto Fringe, che punta molto sui nuovi talenti del teatro, della comicità, della musica e della danza.

Vestito o moquette? A Edimburgo non conta

Vestito o moquette? A Edimburgo non conta

I due festival sono cominciati subito dopo la guerra, nel ’47, e per tanti anni hanno vissuto vite parallele, un po’ da separati in casa. Nelle intenzioni originarie, si rivolgevano a due pubblici diversi, sia come gusti che come disponibilità finanziaria. Oggi la discriminazione sta soprattutto nei prezzi, visto che il grosso degli eventi alternativi sono a offerta libera o a prezzi molto contenuti. I numeri di questa manifestazione sono impressionanti, e ne fanno il più grande festival dedicato alle arti dello spettacolo. Stiamo parlando, tanto per capirci, di 2800 spettacoli in tre settimane, sparsi in quasi 300 strutture ospitanti, cioè bar, ostelli, cinema, teatri, pub… Ci sono spettacoli a tutte le ore del giorno e fino a tarda notte. Gli artisti sono perlopiù anglofoni, ma l’anno scorso era rappresentata una quarantina di paesi.

Ho bevuto una birra con tre (bravi) comici scozzesi

Ho bevuto una birra con tre (bravi) comici scozzesi. O tre birre con uno di loro?

La qualità è quanto di più variabile si possa immaginare, ma nell’insieme la competizione ha portato ad un livellamento verso l’alto. Stesso discorso sui contenuti, dove si può passare da una rappresentazione di Shakespeare fino al delirio sperimentale. In quest’ultima categoria, mi piace ricordare quello che per me è lo spettacolo più strepitoso, riproposto quest’anno dopo il successo del 2012: un giovane vestito da gorilla, che a sua volta si veste da vecchio e dondola su una sedia (a dondolo) per 56 minuti esatti. Poi esce di scena. Fine. E intanto, un vichingo fa le parola crociate. Ovazione. Questo è il link.

 

Periferia

Periferia

Grazie a questo festival e ad altre manifestazioni internazionali, Edimburgo si è costruita una solidissima reputazione come capitale artistica. Si stima che la sua popolazione di mezzo milione di anime raddoppi durante il mese di agosto. Spettacoli a parte, quello che colpisce in questi giorni è la vitalità che si respira camminando per il centro, la massa cosmopolita di giovani che adesso li vedi bere una birra e cinque minuti dopo te li ritrovi in scena; o, se è per quello, in uno dei numerosissimi eventi improvvisati e non compresi nel calendario degli spettacoli che si svolgono nelle strade e nelle piazze: mimi, suonatori di cornamusa, gruppetti rock amplificati, artisti di strada nel senso più lato del termine.
Riassumendo: bello, vivace, vibrante, entusiasmante, indicato per tutti i giovani della fascia d’età 16-85.

Edimburgo

Edimburgo

E poi, il centro di Edimburgo è imponente, nonostante quasi tutti gli edifici siano costruiti in pietra grigia e non è un caso che sia patrimonio dell’Unesco. Un consiglio: fermarsi e restare con lo sguardo rivolto in alto, diciamo dai quattro metri in su, così si possono ammirare lo splendore dell’architettura e l’opulenza dello stile, e soprattutto evitare le brutture delle insegne urlate dei negozi. Partendo stamattina, ho anche visto la periferia di Edimburgo, che non fa eccezione rispetto alle periferie del resto del mondo: banale, a tratti povera, grigia. E stavolta il grigio non aggiunge fascino, bensì pesantezza.

Vista dal ponte

Vista dal ponte

Salutati gli amici Caroline e Mark (grazie per la cena) e passato l’avveniristico ponte sospeso che permette di continuare verso nord, ho affrontato una giornata che definirei classica: vento forte laterale o contrario e l’immancabile spruzzata di pioggia, che ho lasciato passare fermandomi in un pub. Ecco, l’esperienza del pub di campagna mi mancava, ma posso dire non è il massimo. Per carità, la gente è pacifica, ma l’entrata improvvisa di uno vestito da ciclista ha un impatto dirompente sulla monotonia secolare del posto, dove anche gli avventori sono ormai assimilati al mobilio. La parte più difficile, per una volta, è proprio la lingua. Devo abituarmi alla parlata scozzese, altrimenti diventa un rebus rispondere alle domande che ti fanno, anche quelle più semplici, figurarsi imbastire una conversazione.

Ma cosa dicono?

Ma cosa dicono?

Seduto in un angolo, ho preso una foto di straforo della barista e dei due clienti, ma non ho osato fare una registrazione. Di tutta la loro conversazione avrò capito tra sì e no il 30%. E il grosso di questa percentuale è composto da quella imprecazione tipica che comincia con la lettera “f” che tutti abbiamo sentito, ma che lì veniva ripetuta ogni tre parole, come un mantra. Non si finisce mai di imparare, soprattutto le parolacce…

Spettatore in kilt

Spettatore in kilt

Prima di arrivare a Perth, destinazione di giornata, finalmente un incontro simpatico. Un grande campo con l’erba verdissima, tosata corta alla perfezione, e un numero imprecisato di persone che giocavano a bocce. Dopo un po’ che li osservavo, mi hanno adottato, e a turno mi hanno spiegato le regole del gioco e mi hanno invitato pure a fare una partita, se solo fossi rimasto. Due cose mi hanno colpito: la prima è il fatto che si giochi sull’erba e col pallino a una quarantina di metri dai giocatori (in Italia, non mi risulta); e poi, le bocce stesse che, pur essendo tonde, per un effetto ottico dovuto a certe scanalature sembrano schiacciate.

Boccia a riposo

Boccia a riposo

E hanno pure un comportamento strano. Infatti, non hanno composizione omogenea e ai due lati opposti (diciamo ai due poli) contengono dei pesi. Il risultato è che i giocatori riescono a dare l’effetto alle bocce, facendo percorrere loro delle ampie traiettorie ad arco. Quando finisce l’inerzia, la boccia si “adagia” sulla parte più pesante!

1859. Si giocava a bocce prima di giocare a calcio

1859. Si giocava a bocce prima di giocare a calcio

Scopro che il club in questione esiste da 154 anni e partecipa alle competizioni internazionali. Già, perché quando c’è da competere, qua non si guarda in faccia a nessuno: Galles, Inghilterra e Irlanda del Nord diventano nemici acerrimi, alla faccia del Regno Unito, per non parlare del resto del mondo anglofono. Salta fuori che esiste il torneo delle 8 Nazioni di Bocce su Prato (un po’ come il Sei Nazioni di rugby), E finanche i Giochi del Commonwealth di specialità. Addirittura, sono in corso i tornei di qualificazione per l’Open Internazionale 2013.

Ma qui devo aprire una parentesi “politica”.

Banca cooperativa

Banca cooperativa

Ora, è innegabile che il movimento cooperativo vanti radici profondissime nel Regno Unito, al punto che la prima cooperativa di consumo recensita risale al 1769.

Cooperativa alimentare

Cooperativa alimentare

Senza entrare nei dettagli, durante il viaggio avevo acquisito una nutrita documentazione fotografica, da cui si capisce che le cooperative si occupano degli aspetti più vari della vita dei loro associati, dagli alimentari, ai risparmi, all’abbigliamento, ai viaggi…

 

Cooperativa viaggi

Cooperativa viaggi

Ma che l’Open Internazionale di Bocce su Prato, che indubbiamente attira un pubblico, diciamo così, non proprio giovanissimo, abbia come sponsor unico e riconosciuto proprio la Cooperative delle Pompe Funebri… questo proprio no.

Gli increduli possono cliccare sul link.

Io non sono superstizioso, ma se mai giocassi quel torneo, mi girerebbero con l’effetto.
E non solo le bocce.

Grattatio pallorum, omnia mala fugat

Grattatio pallorum, omnia mala fugat

Viva l’Europa

Carlisle-Selkirk. 54.5 miglia  8-8-2013

Carlisle-Selkirk. 54.5 miglia 8-8-2013

E così, a forza di pedalare verso nord, sono arrivato in Albania!

Già, perché con buona pace dei Romani, dopo la loro partenza (e per buona parte del Medioevo) non si parlò più di Caledonia. Tornò in voga il nome di origine gaelica con cui era conosciuto il territorio grosso modo a nord di Edimburgo: Alba! Da qui l’abitudine di parlare di Albania, o Albany.
Con un nuovo passaggio dal latino, emerse poi quella “Albione” che finì per identificare l’intera isola e a cui i francesi prima e il fascismo poi pensarono bene di associare l’aggettivo “perfida”.

Alba vi dà il benvenuto

Alba vi dà il benvenuto

Per complicare ancora un po’ le cose, è utile segnalare che quella che i Romani chiamavano “Hibernia” e oggi va sotto il nome di Irlanda, era conosciuta come Scozia, in quanto patria degli “Scoti”, o “Gaeli” (dal nome della lingua che parlavano, appunto il gaelico), che colonizzarono la Scozia attuale. Chiaro?

 

Selkirk-Edimburgo  45 miglia. 9-8-2013

Selkirk-Edimburgo 45 miglia. 9-8-2013

A parte le stranezze e le etimologie storiche, la sostanza del discorso è che ho finalmente superato il confine che separa l’Inghilterra dalla Scozia, pochi chilometri a nord del Vallo di Adriano. A questo proposito, per confermare che l’inglese vero non è quello delle dispense che si vendono in edicola, aggiungo al post di oggi un altro spezzone di Michael Young, l’inimitabile guida del forte di Vindolanda che spiega (credo) che i Romani non buttavano via niente degli animali che macellavano: le ossa servivano a fare la colla, il sangue a conciare la pelle, e via discorrendo. O forse parla di tutt’altro, ma questo è il bello del dialetto di Newcastle.  Per ascoltarlo, cliccate qui.

O no?

O no?

Sempre parlando del Muro, ancora un piccolo aneddoto. Helen, la guida al forte di Vercovicium (oggi noto come Housesteads), ha cominciato la visita chiedendo da dove venivano i partecipanti. C’erano molti inglesi e qualche scozzese; poi australiani e neozelandesi, sconvolti perché la cosa più vecchia che avevano mai visto fino a quel giorno era una foto della nonna, e infine c’ero io. Non ho resistito e quando mi ha chiesto di presentarmi ho detto, guardandomi attorno, che ero di Roma e che ero venuto a verificare lo stato della mia proprietà! Ovviamente l’ha presa sul ridere e mi ha nominato sul campo esperto di storia romana e suo assistente.

Prima di cominciare l’ultima parte del viaggio, che la guida giudica come la più difficile per via delle montagne e del clima piovoso (cominciamo bene), vale la pena fare una ultima considerazione sulla prima parte del percorso, in cui ho attraversato soprattutto il territorio inglese, sulla direttrice sud ovest-nord ovest.

Certi Celti...

Certi Celti…

La domanda che ormai tutti in Europa si pongono è di sapere se il Regno Unito rimarrà nell’Unione europea e, in subordine, se la Scozia resterà legata all’Inghilterra o sceglierà l’indipendenza (e eventualmente di restare nell’UE). Alla seconda domanda avremo in parte una risposta il 18 settembre dell’anno prossimo, giorno scelto per il referendum scozzese. Sulla prima questione invece, i pareri sono discordanti. Quel che è certo è che la campagna contro l’UE è condotta in maniera forsennata e costante e anche un po’ sleale dal mio punto di vista. Do un solo esempio, piccolo ma significativo di quello che intendo dire.

Qualche giorno fa scrivevo del campionato mondiale per incantatori di vermi (vedi: Vieni fuori, brutto verme!). Sulla pagina del sito che descrive la storia della competizione sta scritto che “le dimensioni delle parcelle di terreno sono aumentate da 3 iarde per 3 a 3 metri per 3, per conformarsi ai requisiti CEE”. Requisiti CEE? Se qualcuno mi trova copia di questi fantomatici requisiti, giuro che gli offro una cena a base di ostriche e champagne. È chiaro che chiunque legga questa affermazione senza sapere che è una gigantesca fesseria, si convincerà ancor più del fatto che l’Europa è inutile e che gli euroburocrati non hanno alcun diritto di interferire con l’habitat degli splendidi vermi britannici.

L'eccezione che conferma la regola

L’eccezione che conferma la regola

Buona parte della stampa ha poi preso la brutta abitudine di attribuire alla UE ogni sorta di nefandezza, presentando dati di fatto in maniera tendenziosa, oppure inventando scoop di sana pianta. Solo negli ultimi mesi, all’Europa è stata attribuita l’intenzione di:

1Imporre una tassa sulla carne che farà aumentare il prezzo del tradizionale arrosto domenicale.
2 Voler cambiare il sistema giudiziario del Regno Unito e controllare i suoi giornalisti
3 Fare una lista nera delle spiagge, in cui sarà vietato andare a nuotare
4 Vietare la vendita di marmellata con meno del 60% di zucchero
5 Vietare i profumi
6 Ridurre la potenza degli aspirapolvere
7 Finanziare film europei “noiosi”
8 Vietare alle parrucchiere di portare tacchi alti e gioielli mentre lavorano e

dulcis in fundo…

9 impedire alle chiese anglicane di cacciar via i pipistrelli che con i loro escrementi le rovinano più di quanto non avesse fatto Oliver Cromwell!

Mi fermo qua per carità di patria, ma poi non stupiamoci se qualcuno si forma un’opinione su fatti del genere e piazza sul parafango l’adesivo che ritraggo nella foto!

Amo l'Europa ma odio l'UE?

Amo l’Europa ma odio l’UE?

Comunque, se questo è il livello, mi adeguo anch’io.

Perché il Regno Unito possa restare nell’Unione europea, occorre porre fine ad alcuni fattori storicamente discriminanti nei confronti del resto del mondo. Due proposte legislative dell’Unione europea, in particolare, sono imprescindibili:

1 direttiva sul divieto d’uso della moquette e obbligo di parquet per i pavimenti. In tutti gli alberghi in cui sono transitato sembrava di camminare su uno strato di gommapiuma. Per fortuna non sono allergico a polvere e acari, ma solo un microbiologo saprebbe dirmi cosa stavo calpestando.

Crewe- Moquette d'albergo

Crewe- Moquette d’albergo

Per di più, in ogni singolo albergo inglese la moquette era di colore rosso, o una sua variazione. In Scozia è diventata verde, ma la sostanza non cambia. Vantaggio ulteriore: si potranno usare aspirapolvere meno potenti (vedi bufala n.6 qui sopra)

Moquette scozzese

Edimburgo – Moquette scozzese

2 regolamento che vieta da subito l’uso di rubinetti separati per acqua calda e fredda e impone l’uso del miscelatore. Adesso, per lavarsi la faccia si devono mettere le mani prima sotto l’acqua fredda, poi quella calda e sperare di indovinare le proporzioni. Se si sbaglia l’ordine, ci si ustiona. Il massimo della perfidia (ah, Albione!) l’ho fotografato per gli scettici: è il finto miscelatore, dove il flusso bollente e quello ghiacciato corrono paralleli ma distinti.

Caldo a sinistra, freddo a destra

Caldo a sinistra, freddo a destra

Da una parte una colata di lava, pochi millimetri più in là un fiume polare. L’effetto sulle mani è drammatico! Vantaggio collaterale: non ci sarà bisogno della laurea per fare la doccia. Ogni albergo ha un sistema diverso, e quando arrivo la sera devo districarmi fra manopole graduate con numeri rossi, frecce blu e interruttori, perché la maggior parte delle docce funziona con la corrente!

Evviva il dirigismo europeo!

E per i vermi, dimensioni minime del terreno: 4 metri per quattro!

Un calcio alla fortuna

“Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”. Questa citazione del grande Eduardo mi è venuta in mente ieri, mentre visitavo il museo di Vindolanda, famoso forte romano situato più o meno al centro del Vallo di Adriano. In una teca che conservava gli strumenti utilizzati dai medici dell’ospedale militare per cercare di rimediare alle ferite dei legionari, si trova anche un amuleto fallico di pietra, con tanto di spiegazione secondo la quale sarebbe servito a tenere lontano il malocchio!

Chiamarlo amuleto...

Chiamalo amuleto…

Ora, non è dato sapere se l’oggetto in questione fosse fatto stringere al paziente come portafortuna durante un’operazione, se gli venisse dato in testa a scopo anestetizzante o se se lo tenesse nella tunica il chirurgo, timoroso di sbagliare l’intervento. Resta il fatto che anche i Romani erano superstiziosi.

Il certificato...

L’amuleto porta il numero 13…

Ieri sera, poi, mi sono reso conto con una certa apprensione che stavo scrivendo il diciassettesimo post da quando ho iniziato questo viaggio. Si sa che il numero 17 è considerato un numero sfortunato; quello che forse si sa meno, è che secondo la maggior parte degli studiosi, questa superstizione sarebbe nata proprio nell’antica Roma, poiché era radicata la consuetudine di incidere sulle pietre funerarie la parola “VIXI”, che in latino significa “sono vissuto”. Fra i tanti possibili anagrammi di VIXI, l’unico numero che può uscire è XVII, appunto il numero 17, il quale sarebbe diventato così il numero della morte, ovvero il numero sfortunato per eccellenza. Un’altra ipotesi fa risalire il tutto alla terribile sconfitta della foresta di Teutoburgo dell’anno 6 d.C. in cui Publio Varo perse, oltre alla propria vita, anche tre intere legioni, la XVII, la XVIII e la XIX. Di conseguenza questi numeri non furono più attribuiti a nuove unità militari. Diciamo che vennero ritirati, un po’ come la maglia di Maradona a Napoli, e quello che più ne fece le spese nell’immaginario popolare fu il 17.
Ovviamente sono tutte superstizioni da non prendere in considerazione. Basta fare come me, e tenere a portata di mano quei due o tre amuleti che ogni persona sensata ha come naturali accompagnatori in ogni viaggio importante…

Resti del forte

Resti del forte

Ma dicevo del Vallo di Adriano. Certo, non è la Muraglia cinese, ma a me è piaciuto tantissimo. Il punto di partenza per la visita è la città di Carlisle (o meglio Luguvalium) che, detto fra parentesi, di suo non meriterebbe neanche il tempo di un caffè, tanto è insipida come città e completamente priva di carattere. Comunque, da qui parte un ottimo servizio di corriere che copre i 120 chilometri del muro originario e che, molto opportunamente, porta il nome di AD 122, cioè l’anno in cui cominciarono i lavori. Sei anni dopo, l’opera era praticamente completata: un muro largo 2-3 metri e alto 5, 80 fortini intervallati da torrette e altri 14 forti ausiliari. Un insediamento per i civili situato fuori da ogni forte, una strada militare e un fossato tra due grandi argini (questo è il “vallo” vero e proprio). E chissà quant’altro ho dimenticato.

Le latrine comuni

Le latrine comuni

Sono riuscito a visitare due forti nel corso della giornata e in entrambi casi ho avuto la fortuna di arrivare in tempo per la visita guidata condotta da volontari del National Trust, associazione benemerita di protezione del patrimonio. Inutile che stia a descrivere le rovine, ma due cose mi piace sottolinearle.

I forti del Vallo di Adriano non erano occupati da legionari (che erano per definizione cittadini romani), bensì da truppe ausiliarie, cioè da soldati dell’Impero che sarebbero diventati cittadini romani solo alla fine del periodo di leva, fissato a 25 anni. Ebbene, le guarnigioni dei forti che ho visitato avevano una composizione che è un manifesto anti-discriminazione. Da una parte c’erano Tungri e Batavi, che oggi chiameremmo Belgi e Olandesi, che avranno trovato anche condizioni atmosferiche molto simili a quelle delle Fiandre. Dall’altra parte, c’erano coorti di arcieri siriani e di cavalieri iracheni, e non oso immaginare lo spaesamento di uno abituato al deserto, che si ritrova a pattugliare in mezzo all’erba fradicia alta fino alle ginocchia. Il tutto avendo il latino come lingua franca e legionari romani come comandanti, inviperiti per essere stati mandati sul confine più umido dell’impero (a proposito di sfortuna).

The wall

The wall

La seconda cosa interessante è che le pietre squadrate usate per costruire il muro e tutti gli edifici circostanti sono state oggetto di un clamoroso furto di massa nel corso dei secoli, addirittura fino al secolo scorso. Basta osservare una qualsiasi fattoria, un qualunque villaggio nella zona circostante e si vede che fine hanno fatto quei blocchi di pietra calcarea estratti quasi 2.000 anni fa.
Ma la cosa più straordinaria è che, se non fosse stato per questa razzia, muro e edifici sarebbero in gran parte ancora in piedi, nonostante lo stato di abbandono, come testimoniano racconti di testimoni oculari di inizio ‘800! La spiegazione si trova in una recente ricerca dell’università della California, secondo la quale l’impasto cementizio utilizzato ai tempi dell’Impero era molto meglio di quello che sappiamo fare oggi. Era molto più resistente del cemento-tipo (Portland), che dopo una cinquantina d’anni comincia a sgretolarsi.

La torre di guardia

La torre di guardia

La cosa più divertente della visita, però, è stata la guida, che ha saputo dipingere l’architettura e la vita del forte in maniera così vivace da far dimenticare il suo accento del nord est dell’Inghilterra (accento “geordie”), che ad un orecchio non allenato può risultare particolarmente ostico. Ho registrato due spezzoni della sua performance, come monito a chi sta per visitare Newcastle. In bocca al lupo…

1 Ma quanti forti c’erano?
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2 Forti di ieri, forti di oggi
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Ma da ultimo, mi piace ricordare che l’imperatore Adriano, oltre che per il Vallo, è passato alla storia per aver lanciato una moda: fu il primo a lasciarsi crescere la barba e la gran parte degli imperatori e del popolo romano lo imitarono per i centocinquant’anni seguenti.

Barbudos

Barbudos

C’è chi dice che lo facesse per nascondere la cicatrice di una ferita. Altri, più maliziosi, sostengono che lo facesse per sfuggire al tormento della rasatura quotidiana, che i “tonsor” di allora facevano con un semplice rasoio di ferro. Scrive Marziale in uno dei suoi epigrammi (VIII, 52)

«… Le stimmate che io porto sul mento
quante un grugno ne ostenta
di pugile in pensione, non mia moglie
me l’ha fatte, folle di furore,
con le sue unghie, ma il braccio
scellerato d’Antioco e il suo ferraccio…»

Per me, la spiegazione è un’altra. Adriano fece un po’ come Bergomi, che nell’82 si lasciò crescere i baffi. Adriano si lasciò crescere la barba perché sapeva che gli avrebbe portato fortuna. E infatti, riuscì in pieno nel suo intento di tenere a bada i Pitti.

E Bergomi vinse il Mondiale.

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Ps: Chissà quanti campionati avrebbe vinto l’Inter se, quando comprò Adriano e lo chiamò “l’imperatore”, Moratti si fosse ricordato di fargli crescere la barba un po’ più lunga!

 

Ppss: Domani tappa lunga. Il blog riposa

Una cura per l’insonnia?

Cosa hanno in comune matematici, linguisti e ortopedici? Le pecore.
Vediamo perché.

Secondo le stime più recenti, nel Regno Unito ci sono circa 36 milioni di pecore e 63 milioni di abitanti, vale a dire circa una pecora e tre quarti per abitante. Se però consideriamo che l’80% della popolazione britannica vive in zone urbane, dove le pecore compaiono solo sotto forma di costolette o cosciotti, l’ordine di grandezza effettivo è di tre pecore per ogni abitante.

Un dodicimilionesimo del patrimonio ovino

Un dodicimilionesimo del patrimonio ovino

Non è una grande scoperta, anzi, girando per la Britannia in bicicletta uno ha l’impressione che le pecore al pascolo siano ancor più numerose, tante e tali sono le greggi che punteggiano le infinite colline di ogni regione di questo paese, e contribuiscono, assieme a piogge abbondanti, a fertilizzare gratis milioni di ettari di terreno. Mucche e cavalli fanno il lavoro di complemento.

Pink Floyd - Atom Heart Mother - B side

Pink Floyd – Atom Heart Mother – 1970

Il numero di 36 milioni di capi è il risultato di un conteggio molto accurato, un vero e proprio censimento, che ha coinvolto tutti i pastori, o allevatori che dir si voglia, del regno.
Durante la tappa di ieri, mi sono fermato sul lato della strada a parlare con uno di questi allevatori dello Yorkshire, che stava trasferendo un certo numero di animali su un nuovo pascolo. Sarà che non aveva fretta, sarà che non gli capita spesso di parlare del suo lavoro, insomma, siamo rimasti a chiacchierare per una ventina di minuti. Mi ha raccontato che questa è la stagione in cui si svezzano gli agnelli, si è lamentato del tempo, dei costi del mangime e dell’insilamento del fieno. Poi ha cominciato a contare gli animali che uscivano dal camioncino. Ed è a quel punto che le mie orecchie da linguista si sono rizzate, nel sentire una specie di filastrocca, che suonava più o meno così: Yan, Tyan, Tethera, Methera… Ma che razza di lingua era?

Transumanza

Transumanza

Mi ha spiegato, ridendo, che la cosa più importante per un allevatore è di sapere con precisione quanti animali possiede e quello è il modo tradizionale di contare le pecore, che lui ha imparato da suo padre e che usa al mercato, ma che purtroppo suo figlio ha ormai abbandonato in favore del metodo inglese “moderno”. Sempre più perplesso, ho cercato di capirne di più, ma non sono andato oltre la rivelazione che ogni vallata ha una sua versione particolare di questa “contabilità” animale. E lui conosce quella di Kirkby Lonsdale.

Studiando un po’ la questione, sono arrivato ad una scoperta per me stupefacente.
Risulta, infatti, che esiste tuttora un sistema di numerazione usato per contare le pecore (e i punti del lavoro a maglia) che risale nientemeno che alla cosiddetta lingua “britonica” (celtica) ancestrale, che ha dato origine, inter alia, alle lingue parlate in Cornovaglia, Bretagna, Galles e Cumbria. Il sistema è perlomeno curioso.

Kirkby Lonsdale

Kirkby Lonsdale

Intanto è basato su una serie di rime, che comprendono gruppi di due numeri alla volta. Perciò, nella contabilità dei pastori di Kirkby Lonsdale succede questo:
Uno fa rima con due : Yaan – Tyaan
Tre fa rima con quattro : Taed’ere – Maed’ere
Sei fa rima con sette: Haites – Saites
Otto fa rima con nove: Haoves – Daoves
Cinque (Mimp) e dieci (Dik) sono a parte.

Traducendo la numerazione in italiano da undici fino a venti, il risultato sarebbe:
Uno dieci
Due dieci
Tre dieci
Quattro dieci
Quindici
Uno quindici
Due quindici
Tre quindici
Quattro quindici
Venti

Yorkshire Dales. Base di muro

Yorkshire Dales. Base di muro

Riassumendo, è un sistema basato sul numero 20 (e sul numero cinque), ma a differenza di tanti altri casi del genere già noti nell’antichità, non conosce nessun termine per indicare quantità superiori a 20. Quindi, se si deve contare un gran numero di pecore, il sistema funziona sommando il numero di volte che si arriva a contare venti capi.

E come si fa a non dimenticare quante volte si è contato fino a venti?
Si usano le dita di una mano, dove le dita assumono un diverso valore a seconda della loro posizione:
Dito in estensione = 2
Dito piegato ad angolo retto = 1
Dito “chiuso” = 0

Yaan - Tyaan

Yaan – Tyaan

Evidentemente, a forza di stare sui pascoli per secoli, i pastori britannici hanno avuto tutto il tempo di mettere a punto un sistema assolutamente infernale, che, però permette, così dicono, di contare fino a 399 pecore con due mani!

Unica controindicazione: mai usare il sistema celtico della conta delle pecore in caso di insonnia: finisce che si sta svegli, perché se si rilassa un dito crolla tutto il calcolo!

Dimenticavo. E gli ortopedici cosa c’entrano con tutti questi calcoli?
A prima vista non molto, ma in realtà svolgono un ruolo assolutamente fondamentale.

Provate voi a contare le pecore di un gregge con un dito rotto. O con l’artrite!

Guerriero danese ferito (ricostruzione)

Guerriero danese ferito (ricostruzione)

Ps : Qualche secolo di scorrerie e di dominio vichingo non ha contribuito alla logicità del sistema numerico vigesimale, anzi. Basti pensare che se un danese di oggi vuole esprimere, ad esempio, la cifra 57 (tra l’altro, anno di nascita di un mio amico carissimo), è obbligato a scrivere: sette più due e mezzo moltiplicato venti. Povere pecore danesi!

Strade sicure

 

Kirkby Lonsdale e Kirkby Stephen, rispettivamente punto di partenza e tappa intermedia del percorso odierno, sono praticamente intercambiabili.

Kirkby Lonsdale-Carlisle. 68 miglia. 6-8-2013

Kirkby Lonsdale-Carlisle. 68 miglia. 6-8-2013

A parte i 40 chilometri che le separano, hanno lo stesso nome di base, Kirkby, composto da due parole di origine nordica (kirk = chiesa e by = villaggio) che tradiscono la presenza di insediamenti vichinghi risalenti a prima dell’anno 1.000.   Se si guarda un atlante stradale, si vede che di Kirkby in Inghilterra ce ne sono tantissime, e a molte è stato aggiunto un altro nome per distinguerle. E ci mancherebbe: è come se in Italia dovessimo identificare una località chiamandola solo “Villaggio con la chiesa” !

Kirkby Lonsdale

Kirkby Lonsdale

A parte il nome, le due località sono molto simili: centri rurali di 2.000 abitanti, città mercato da un migliaio di anni in virtù di bolle reali, tappe turistiche consolidate soprattutto per chi ama le lunghe passeggiate sulle colline di questa bella regione, la Cumbria.

È la pioggia che va...

È la pioggia che va…

A proposito, per avere un’idea del tipo di paesaggio (a cui le mie foto non possono rendere giustizia), basta prendere il nome Cumbria e togliere la lettera “C”. Ecco, facciamo finta di essere in Umbria. E invece siamo vicini al confine settentrionale dell’Inghilterra, tanto che ormai sono in vista della Scozia, ovvero del Vallo di Adriano, che a due riprese segnò il limite dell’impero romano.

Comincia il parco

Comincia il parco

E siamo anche ai confini dello Yorkshire, la regione più estesa del paese, che ospita il gigantesco parco naturale delle Yorkshire Dales, con le sue colline, vallate e brughiere così caratteristiche. A ovest, poi, ci sarebbe nientemeno che il Distretto dei Laghi, ossia i 3.000 km. quadrati collinari più romantici che l’ultima glaciazione ci ha regalato 10.000 anni fa e che decine di poeti hanno consacrato nei secoli. Peccato dover procedere, anche se le mie gambe ringraziano!

Futuro maglione di lana bruca nella brughiera

Futuro maglione di lana bruca nella brughiera

Fissato il quadro, vorrei attardarmi un attimo su una questione che alcuni amici mi hanno posto via mail, vale a dire le condizioni della viabilità per un ciclista in generale e per qualcuno che abbia voglia di fare come me, cioè affrontare un lungo percorso. La risposta l’ho data parzialmente qualche giorno fa. Le strade minori sono più belle, più panoramiche, fanno scoprire villaggi microscopici e permettono di fare incontri sorprendenti. Ad esempio, domenica pomeriggio, sulla strada per Kirkby Lonsdale, mi sono fermato, per lasciar spiovere, nel cortile di quello che sembrava un piccolo capannone. Esce un tipo con baffoni da tricheco e la tuta piena di grasso: fa il meccanico. E dei capannoni, alla fine, scopro che ne ha tre, e tutti e tre pieni di moto: da collezione, nuove da vendere e in riparazione. Gli dico che sono italiano e il gioco è fatto. Mi mostra una Guzzi Jackal a cui tiene molto, una Ducati carenata da corsa e cento altre chicche che lo tengono occupato anche in un giorno di festa.

12 cavalli

12 cavalli

Mi spiega che detesta le moto troppo piene di elettronica, perché non gli permettono più di fare il vero lavoro del meccanico. A tempo perso lavora su una Austin 12 del 1928, che tiene sotto una tettoia e per la quale costruisce da solo i pezzi che eventualmente si rompono. Ecco, tutto questo per dire che sulle grandi arterie questi incontri non si fanno, però si guadagna tantissimo dal punto di vista del fondo stradale, dei servizi e della sicurezza personale. A proposito di sicurezza, trovo davvero notevole l’uso che si fa, particolarmente nelle campagne, dei cosiddetti “cat’s eyes” (occhi di gatto).

Occhi di gatto o Star Wars?

Occhi di gatto o Star Wars?

Sono delle ganasce di ferro piantate nell’asfalto, sul bordo della carreggiata o lungo la linea di mezzeria, che trattengono un elemento di gomma rigida che protegge e addirittura pulisce un catarifrangente di colore bianco, rosso, verde o arancione. Percorrere di notte una strada sinuosa, sperduti nella campagna, lasciandosi guidare dagli occhi di gatto diventa un’esperienza fantasmagorica: sembra di guidare sulla pista di atterraggio di un aeroporto, con le linee di colore che si intrecciano in corrispondenza delle curve o degli incroci. Di giorno, invece, sembra di vedere una serie di piccoli teschi o, con un po’ di fantasia, delle teste di soldati dell’impero in Guerre Stellari. Furono inventati nel 1934 da Percy Shaw, un uomo senza fronzoli che cominciò a lavorare da apprendista a 13 anni e che ben esemplifica il carattere pragmatico della gente del Nord, e dello Yorkshire in particolare. L’invenzione lo rese milionario, ma continuò a vivere nel suo due stanze e cucina fino alla fine dei suoi giorni. Due soddisfazioni se le tolse: possedere una Rolls Royce Phantom e tenere accesi 24 ore al giorno quattro televisori, sintonizzati su BBC 1, 2, 3 e ITV. E poi dicono che guardo tanta televisione io!

Hanno cavato gli occhi al gatto?

Hanno cavato gli occhi al gatto?

L’ultimo piccolo dettaglio su cui vale la pena riflettere è che da queste parti si viaggia contromano. O meglio, si viaggia a sinistra, come si fa in circa un terzo dei paesi del mondo, spesso in funzione diretta dei possedimenti imperiali di questa o quella potenza. Adeguarsi non è difficile di per sé. Il difficile è mantenere la concentrazione e non cedere alle reazioni d’istinto, soprattutto nei momenti di difficoltà. In auto, la difficoltà sta tutta nell’usare la mano sinistra per cambiare marcia. Cercando di capire i motivi storici della scelta di guidare da una parte o dall’altra, si finisce in una palude di ipotesi, che vanno dai cavalieri medievali che tenevano la sinistra per poter usare la spada con la destra, a Robespierre che impone la destra perché era il lato del “popolo” in Inghilterra, fino al freno a mano esterno che, a seconda di dove era piazzato, determinava la posizione del volante.

Da che parte?

Da che parte?

Il bello è che mentre il Regno Unito è sempre stato coerentemente sinistrorso, nell’Italia post-unificazione si guidava da ambo i lati, a seconda della decisione di ogni provincia. Quindi, per andare da Cotignola (Ravenna) a Imola (misteriosamente in provincia di Bologna), occorreva cambiare senso di marcia dopo Castel Bolognese, che, come il nome indica, è in provincia di Ravenna. A parte gli scherzi, è pur vero che a Ravenna si teneva la destra ma, lungo la strada per Porto Corsini, «per antica consuetudine» si procedeva a mano sinistra. E ancor oggi non mancano esempi sopravvissuti alla modernità, come certi ponti sul Tevere a Roma, dove si viaggia allegramente contromano.

T - junction di pietra

T – junction di pietra

E chi, se non un romagnolo, poteva risolvere la faccenda? Ebbene sì. Di fronte al crescente numero di incidenti e proteste, fu proprio il duce a prendere la decisione di mandare tutti gli italiani a destra (e ti pareva!), con un decreto firmato dal re nel 1923, cioè appena un anno dopo che i partecipanti alla Marcia su Roma avevano tranquillamente viaggiato a sinistra! La decisione fu presa contro il parere di vari prefetti, che ritenevano più sicuro per i mezzi dell’epoca il sistema all’inglese. Ma figuriamoci se il duce voleva andare a sinistra. Provò persino a far invertire il senso di marcia dei treni, ma di fronte alla spesa colossale necessaria, almeno su quello dovette soprassedere.

Anche le pecore vanno a sinistra...

Anche le pecore vanno a sinistra…

E i Romani in tutto questo? Giulio Cesare, solitamente preciso nei dettagli, con la sua Lex Iulia Municipalis del 54 a.C. scrisse in pratica il primo codice della strada, ma stranamente non precisò il senso di marcia, forse perché, quando passava lui, erano gli altri a spostarsi. Fatto sta che oggi gli archeologi inglesi ci vengono in soccorso, con una scoperta a dir poco sensazionale. In una cava di pietra vicino alla città di Durocornovium (nei pressi dell’attuale Swindon), nel sud del paese, hanno scoperto le tracce ben conservate del passaggio dei carri che entravano vuoti nella cava e ne uscivano carichi di pietre. E, neanche a farlo apposta, il solco in entrata, molto meno profondo, si trova a sinistra.

Aveva ragione Totò: “E poi dice che uno si butta a sinistra”!

Panzio si mimetizza

Panzio si mimetizza

Buon sangue, non mente (Come disse il vampiro, rifiutando un After Eight)

Mentre mi avvicino a pedalate lente ma implacabili alla metà di questo viaggio, il tempo fa di tutto per rallentarmi, al punto che sono costretto a fermarmi di nuovo per un giorno, di fronte a previsioni che danno pioggia costante per 24 ore. Ormai ho messo in conto almeno una spruzzata d’acqua al giorno, ma devo dire che la variabilità, alla fine dei conti, non disturba oltremisura. Quello che proprio non si regge è una perturbazione, come quella di oggi, che avanza lentissimamente dall’Atlantico e si scarica fino all’ultima goccia, con un vero e proprio stillicidio, continuo, insistente e monotono, che ti inzuppa anche il femore.

Preston-Kirkby Lonsdale (Cumbria) 46 miglia 4-8-2013

Così, approfitto del tempo regalatomi per fare qualche ringraziamento e per ribadire il senso di questo viaggio.

Anzitutto, vorrei ringraziare Guido Carretta, che, reduce da due settimane di “studio” in Cornovaglia, ha pensato di mandarmi una vignetta, fortunatamente non profetica, che immortala l’inizio dell’avventura. Conoscendolo, mi aspetto terribili ordalie per il povero Panzio Pelato alla riconquista della Britannia!

Cominciamo bene...
Cominciamo bene…

E grazie a Oriano Sportelli, creatore (assieme a Véronique) e gestore tuttofare di questo mio sito che avrebbe grandi potenzialità, non fosse per la mia insipienza tecnologica. Se siete amanti della fotografia artistica, date un’occhiata al suo sito, o alla sua rivista (privatephotoreview.com): è una finestra straordinaria sul mondo, un viaggio virtuale dentro realtà sconosciute o sorprendenti; insomma, una salutare boccata d’ossigeno.

Private Magazine
Private Magazine

Infine, per chi ha la pazienza di leggere le mie cronache in diretta, ricordo che alla base c’è un intento caritatevole. Il sudore che sto versando copioso in questo viaggio contromano vorrei contribuisse al lavoro di tutti quelli che il sudore lo versano per ben più nobili scopi. Come nel 2010, in occasione della traversata degli Stati Uniti in bici “coast to coast”, anche questa volta ho scelto Ruvuma Onlus come ideale compagno di viaggio. La maniera migliore per alleviare la mia fatica e nutrire la mia creatività è quella di visitare il sito di questa associazione di volontariato che da anni mantiene e gestisce con successo un ospedale in Tanzania. Lasciatevi tentare dalle attività di Ruvuma e dalla sua pagina per le donazioni.

Si può fare
Si può fare

E visto che siamo in tema di appelli, dico a tutti:
Condividere, condividere, condividere“!
Vi chiedo di aiutarmi oggi stesso a diffondere questa pagina sui social media, per mettere al corrente sempre più persone di questa iniziativa di solidarietà. Grazie.

Ah, e intanto che ci siete, non esitate a farvi vivi con idee, critiche e suggerimenti per il blog. Mi farà sentire meno solo in queste giornate di pioggia (finora 12 ore non stop, ripeto non stop)

Ruvuma
Ruvuma

Ma torniamo a noi, o piuttosto a Panzio Pelato. Chi di noi, visto che non riusciva a cambiare vita, non ha pensato per una volta di cambiare almeno il proprio nome?
Da quello che so, in Italia una cosa del genere è permessa solo a chi ha un cognome particolarmente ridicolo o vergognoso, e ad ogni modo richiede un iter burocratico pesantissimo, con tanto di accordo dei terzi fino a non so quale grado di parentela.

Ebbene, ascoltando la BBC questa mattina, ho appreso che nel Regno Unito, 400.000 persone hanno cambiato nome e/o cognome negli ultimi dieci anni; ben 60.000 solo l’anno scorso. Tecnicamente, basta la decisione personale: cioè, io posso decidere che da domani mi chiamo Panzio Pelato, lo comunico a tutti gli interessati e a coloro con cui interagisco (parenti, amici, baristi, anagrafe, società telefonica, Ruby, ecc.) e tutti saranno tenuti a usare il mio nuovo nome. Formalità nessuna, costo zero.

Cosa c'è in un nome? Ciò che chiamiamo vespa anche con un altro nome conserva sempre il suo pungiglione -- William Shakespeare
Cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo vespa anche con un altro nome conserva sempre il suo pungiglione
— William Shakespeare (Quasi)

Se poi voglio una prova dell’avvenuto cambio di nome, basta che chieda ad una persona “nota” di certificarlo con una sua lettera in carta semplice. Può essere ad esempio un medico di base, un avvocato, un prete, un parlamentare…
Qui i costi non sono determinabili: Azzeccagarbugli si sarebbe accontentato di quattro capponi, ma valli a trovare quattro capponi veri in Inghilterra, dove ormai sono solo sinonimo di “pollo di grandi dimensioni”. Comunque, diciamo che il costo varia, fra zero e quattro galline da brodo.

Se poi voglio esagerare e richiedere la registrazione del mio nuovo nome, posso farlo con un documento ufficiale, autenticabile al costo di 10 o 15 sterline, a seconda che faccia la richiesta on line o di persona. So che tanti non crederanno questa storia, dato che vivono, come me, in un paese in cui occorre il codice fiscale anche per andare in pizzeria. Per questo, riporto un link che dà l’informazione di base, da cui partire per una propria ricerca.

Un nome, una garanzia
Un nome, una garanzia

Poi ne aggiungo un altro, per far vedere che la gente qua non scherza, e non esita ad usare l’arma anagrafica anche a scopo di protesta. Il caso (vero) è quello di un tipo che, a fronte della richiesta della sua banca di pagare 20 sterline di interesse per coprire uno scoperto di 10 sterline, ha pensato bene di cambiare il suo nome in: “Yorkshire Bank plc Are Fascist Bastards”.
A chiusura del conto, la banca ha dovuto inviare l’estratto conto a questo suo pittoresco (ormai ex) cliente!

Il Credito Cooperativo Ravennate si consideri avvisato.

In tutte le famiglie c'è una pecora nera...
In tutte le famiglie c’è una pecora nera…

Questa storia dei nomi me ne fa venire in mente un’altra, ben più terrificante, che riguarda la casa reale.

Nel novembre scorso, durante un’intervista televisiva, il principe Carlo ha raccontato distrattamente di una sua lontana discendenza da Vlad III di Valacchia, più noto agli storici come Vlad l’Impalatore, dato il suo vizietto di infliggere questo simpatico supplizio a criminali e nemici (o supposti tali) e di intingere il pane nel loro sangue.

La parentela con questo lugubre personaggio del ‘400 passa attraverso la bisnonna di Charles, la regina Maria, moglie di Giorgio V.

Vlad è stato anche la fonte di ispirazione a cui ha attinto un certo Bram Stoker per creare uno dei personaggi più conosciuti e inquietanti della letteratura moderna.

Buon appetito
Buon appetito

Insomma, dove voglio arrivare?
Voglio dare all’erede alla corona britannica appena nato un suggerimento per distinguersi finalmente dal resto della famiglia.
Non appena avrà compiuto 16 anni, cambia nome, si fa fare una bella lettera da un suo dipendente conosciuto, tipo l’Arcivescovo di Canterbury, la fa registrare con 10 sterline e diventa così il simbolo vivente della continuità dinastica.
E il giorno dell’incoronazione, altro che Giorgio VII.
Si chiamerà Re Dracula I Windsor

Ps: I capponi glieli faccio avere io dall’Italia

Una storia di periferia

Giornata lunga, come da programma, e un centinaio di chilometri coperti, equamente divisi tra pianura e saliscendi. Quella che comincia a farsi sentire è indubbiamente la fatica fisica, ma da due giorni a questa parte la relativa bruttezza del paesaggio è un’aggravante non da poco.

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Archeologia industriale

Sto attraversando zone che hanno conosciuto periodi di abbandono rurale, di sviluppo industriale frenetico, di sfruttamento minerario e di crisi massicce che hanno lasciato tracce evidenti. In questi giorni, ci si è messa anche la società Cuadrilla, che a dispetto del nome da ballo sudamericano, è una società petrolifera a tutti gli effetti. Ha appena richiesto varie autorizzazioni per cominciare a perforare anche in questa contea del Lancashire alla ricerca del gas di scisto, da ottenere con la tecnica del cosiddetto “fracking”, contestatissima dagli ambientalisti e dalle popolazioni locali.

Crewe-Preston. 62 miglia. 3-8-2013

Crewe-Preston. 62 miglia. 3-8-2013

Seguendo le indicazioni della guida, finisco per evitare i centri urbani maggiori, anche se fa una certa impressione vedere sulla cartina il groviglio di strade e autostrade che devo superare per aprirmi un varco in questa mega-agglomerazione urbana che vede Liverpool, poche miglia a ovest, e Manchester dall’altra parte: volendo, una specie di metaforico dribbling tra due grandi protagoniste della Premier League!

Ma, calcio a parte, cerco di districarmi in una immensa periferia post-industriale. Raramente le periferie di questo tipo sono belle, e qui non fa eccezione. Anzi, a rischio che gli abitanti si offendano, ho concluso che in molti dei paesi che ho attraversato la cosa esteticamente più bella era il cimitero.

Storia vissuta

Storia vissuta

Con quelle file disordinate di lapidi senza fiori, sparse nel cortile della immancabile chiesa di pietra, si crea una specie di oasi romantica che un muretto separa dalle brutture esterne: un metaforico libro aperto che racconta o lascia immaginare la vita di chi, nei secoli, ha scritto la storia locale, magari senza saperlo.

Oggi, invece, la vita si sviluppa attorno alla strada principale, cui fanno da ali file interminabili di case mono o bifamiliari, costruite in gruppi implacabilmente uguali.

Una strada fra tante

Una strada fra tante

Domina il colore rossiccio, nel senso che le abitazioni sono fatte di mattoni a vista, i muretti che le separano dalla strada sono in mattoni a vista, ed è rossa pure la piazzola di sosta della corriera.

I centri più importanti sono circondati da quello che mi piace chiamare l’anello dei parallelepipedi: un cordone sanitario di capannoni che ospitano i grandi centri commerciali, le rivendite di automobili, di macchinari e di tutto quello di cui pensa di aver bisogno il moderno consumatore.

Home sweet home

Home sweet home


Mi rendo conto che non è un quadro entusiasmante, e forse l’acido lattico mi sta giocando un brutto scherzo, ma garantisco che ogni volta che sono riuscito a uscire dalla morsa delle costruzioni e a fare un po’ di strada in ciò che resta dell’aperta campagna, beh, mi è sembrato di pedalare molto meglio.

Con tutto questo, sono arrivato in serata a Preston, che rientra già nella contea del Lancashire. All’arrivo ho chiesto indicazioni a due gentilissime cicliste, che mi hanno accompagnato fino in centro, a due passi dall’albergo.

Le mie guide

Le mie guide

Ho scattato loro una foto, che ho promesso di postare sul blog a mo’ di ringraziamento. Una delle due (purtroppo non ho raccolto i nomi) lavora per la contea e si occupa, manco a dirlo, di problemi di mobilità su due ruote. Nel breve tragitto fatto insieme lungo il fiume, mi ha raccontato di come si sia investito molto nella costruzione di un anello di una ventina di miglia di pista ciclabile attorno alla città, e di quanto l’investimento abbia fruttato in termini di miglioramento della mobilità, della salute generale e dell’ambiente. Non ho potuto far altro che darle ragione e, metaforicamente, allargare le braccia!

Solidarietà

Solidarietà

Andando a cena, mi è capitato di notare un assembramento nella piazza prospiciente il museo Harris, che è un edificio neoclassico che porta sul frontone una dedica benaugurante alla letteratura, alle arti e alle scienze.
Sembrava un normale mercatino, nel senso che dietro tre o quattro bancarelle alcune donne offrivano prodotti per lo più alimentari. Poco lontano, un gruppo di uomini pregava inginocchiato. Un giovane di origine indiana, Nasim, mi ha spiegato che si tratta di una iniziativa di beneficenza organizzata dalla comunità mussulmana di Preston a favore dei senzatetto della città, che risultano essere una cinquantina. E in effetti, un poco in disparte, un gruppo di persone piuttosto male in arnese aspettava pazientemente di poter ricevere cibo caldo a volontà e una buona riserva di prodotti da consumare in seguito. Ho parlato anche con uno di loro, un giovane, che mi ha spiegato quanto sia dura vivere all’addiaccio e quanto la polizia non tolleri più l’occupazione abusiva di edifici vuoti (squatting), pratica questa che in Inghilterra ha goduto per anni di una forma di semi impunità.

Nasim

Nasim

Vedere come la solidarietà possa avvicinare due gruppi così eterogenei è stato uno spettacolo insolito per me, ma non certo per una città in cui i mussulmani sono circa l’8% degli oltre 100.000 abitanti, mantengono 12 moschee e sono ben integrati nel tessuto socio-economico. Il mese di Ramadan finirà solo venerdì prossimo, per cui Nasim, come tutti lì, stava aspettando le nove di sera per poter bere e mangiare. È d’accordo con me nel dire che rispettare il Ramadan a queste latitudini è problematico. Mi spiega che nei paesi ancora più a Nord, dove il sole praticamente non tramonta, il muftì decide sulla durata del divieto: in genere si opta per 18-20 ore giornaliere di digiuno!

A non più di 200 metri dal luogo di questo insolito incontro, ho scoperto invece la Preston del sabato sera, che sembra essere dominata dai disco-pub, che riversano per strada musica ballabile di ogni genere già alle 8 di sera. L’impressione è che qui si raccolga buona parte della città, e infatti si vede veramente di tutto.

 

Stivale sobrio

Stivale sobrio

Uomini e donne si muovono in gruppi, occhieggiando e soppesandosi da un marciapiede all’altro della “high street”. Vola qualche fischio, qualche apprezzamento salace e qualche risatina: tanto, prima o poi si incontreranno in un locale o in un altro, dove verranno imbarcati da solerti buttadentro, che mostrano una densità di neuroni inversamente proporzionale al volume dei bicipiti. Le ragazze sono “tirate” a balestra: il risultato cromatico è spesso sconcertante e l’equilibrio è instabile su tacchi a spillo chilometrici, ma almeno si apprezza l’impegno.

Piccoli Beckham crescono

Piccoli Beckham crescono

I ragazzi invece girano in jeans e maglietta quando va bene, in short e canottiera quando va male. L’importante è mostrare un massimo di tatuaggi, principalmente sulle braccia, ma anche sui polpacci, dietro il collo e in fondo alla schiena. L’idolo è David Beckam, che a torso nudo sembra una maglia di Missoni.

Guido is back. E anche Panzio ha problemi di abbigliamento

Guido is back. E anche Panzio ha problemi di abbigliamento

Sono le 10 e qualche coppia (stagionata o appena costituita?) brancola già lungo la “high street” con andatura incerta.
Una di queste mi colpisce perché prova il brivido dell’eleganza: vestito lungo nero e filo di perle lei, giacca e pantalone lui. Addirittura, la cravatta: peccato che si fermi quattro dita sopra l’ombelico.
In loro onore, mi sembra che dal disco-pub esca addirittura la voce di Domenico Modugno che canta “Vecchio frack”.

O è forse “Vecchio fracking”, da ballare al ritmo di Cuadrilla ?

Vecchio fracking ?

Vecchio fracking ?

o mal di gola?

Sono tanti i motivi che ci spingono a visitare una città: i suoi monumenti, i palazzi d’epoca, un teatro, un ristorante, un parente, un amorazzo, una manifestazione, un parco, un’università, e chi più ne ha più ne metta.

Non è allergico al polline...
Non è allergico al polline…

Penso però che a nessuno sia mai capitato di visitare una città per via del suo nome. Fino a stamattina non era mai capitato neanche a me, però si sa, a tutto sappiamo resistere, fuorché alle tentazioni. Così, lasciata Piadina a riposare in albergo, sono salito su un treno per andare in Galles, più precisamente sull’isola di Anglesey, dove si trova il paese che vanta il nome più lungo del Regno Unito. Eccolo qua:

Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch

La stazione
La stazione

Sono 58 caratteri in tutto, che, messi assieme, significano qualcosa come:
Chiesa di Santa Maria nella valletta del nocciolo bianco, vicino alle rapide e alla chiesa di San Tysilio nei pressi della caverna rossa.

Gli inglesi non riescono a pronunciare questo nome, anche perché alcuni suoni, come la doppia elle iniziale, sono a loro totalmente sconosciuti. Con il loro abituale pragmatismo, lo hanno ridotto a Llanfair PG, dove Llanfair significa “Santa Maria” e PG funge da abbreviazione per le restanti cinquanta lettere. I gallesi invece fanno un punto d’onore del saper declamare fino in fondo e senza esitazione il nome di questa località, che, non fosse per questo fatto strabiliante, sarebbe uno degli insediamenti umani più banali che si possano immaginare.

Da ripetere 100 volte...
Da ripetere 100 volte…

Un piccolo dettaglio: in Galles ci sono qualcosa come 630 località il cui nome, piu o meno lungo, comincia con il prefisso “llan” e più avanti spiegherò come questo fatto abbia avuto un impatto fondamentale nella storia dell’impero romano.

Diciamo che mi è sembrato indispensabile approfittare della relativa vicinanza per visitare questi luoghi e soprattutto ristabilire la verità storica dei fatti. Mentre il treno attraversa la città di Chester (che noi legionari romani chiamavamo Deva), mi viene in mente che l’isola gallese che sto per raggiungere era nota agli storici romani come Isola di Mona.

Nei suoi Annali (XXIX e XXX), Tacito racconta per filo e per segno l’invasione dei legionari, che devono superare il terrore iniziale causato dall’apparizione dei druidi, i quali, in mancanza d’altro, scagliano sugli invasori terribili maledizioni.
Quello che Tacito non spiega è come mai il temibile esercito celtico che aspettava nelle retrovie venne colto completamente di sorpresa dall’avanzata romana. Ve lo racconto io con uno scoop mondiale, e sfido Piero Angela a fare di meglio.

Aemilius ex Monte affronta i Druidi
Aemilius ex Monte affronta i Druidi

Visto che i legionari avanzavano tranquillamente, a dispetto degli accidenti e delle fatture dei druidi, la piccola vedetta celtica scese dal suo albero e, come da istruzioni, corse ad avvisare il capo dell’esercito nelle retrovie, affinché potesse concentrare le difese sul lato del probabile attacco.
Il capotribù, di antiche origini celtico-triestine, interrogò la vedetta trafelata e intimidita, che gli annunciava l’arrivo dell’invasore:
“Dimmi ragazzo…”, esordì il guerriero.
“Arrivano dalla parte di Llanfrechfa”? “No, signore”
“Arrivano forse dalla parte di Llansantffraid”? “No, signore”
“Allora arrivano dalla parte di Llanerchymedd”? “No, signore”
“Insomma, arrivano da Llanhyfryddawellehynafolyba”? “No”

Il ragazzo, sempre più intimorito, raccolse tutto il coraggio che aveva e disse:
“Mio signore, i nemici arrivano dalla spiaggia di
Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogo….goch!

Rprovare...
Rprovare…

Troppo tardi! Non fece in tempo a finire quel nome lunghissimo, che Aemilius Ex Monte, primo centurione della prima coorte della seconda Legione Augusta stava già guidando l’attacco romano verso la palizzata ancora sguarnita della cittadella.
Sentì il capotribù che se la prendeva con la vedetta e lo apostrofava duramente dicendogli: “Tasi, mona!”. E così, l’isola fu sottomessa e ribattezzata allo stesso tempo.

Scherzi a parte, il villaggio prospera grazie al suo nome impossibile e alle corriere di turisti che ogni giorno sbarcano nel centro commerciale adiacente alla stazione per fare incetta di ricordini. Mi sono allontanato dalla zona e ho pranzato in un pub, dove ho fatto amicizia con il giovane barista e un abitante del luogo, che parlavano tranquillamente in gallese tra di loro.

Il pub, "tafern" in gallese
Il pub, “tafern” in gallese

È bello vedere che da queste parti la lingua ancestrale è ancor oggi un potente simbolo di appartenenza e di unificazione: i cartelli stradali, così come le insegne dei negozi, sono bilingui e la BBC ha un canale dedicato che trasmette esclusivamente in gallese. Sentire il mio interlocutore più anziano ricordare che ha cominciato a studiare inglese solo a scuola, quando aveva già 11 anni, mi ha fatto un effetto strano, perché mi ha fatto ripensare al fatto che anch’io, come milioni di italiani, sono cresciuto parlando prima in dialetto (romagnolo nel mio caso) e poi in italiano.

Hew e David
Huw e David

Ad ogni buon conto, prima di partire il barista, Huw (versione gallese del nome Hugh) mi ha lasciato come ricordo la registrazione del nome del villaggio in perfetto gallese.
Eccola:

Segue la mia personalissima versione:

Mi viene da ridere su come ci si potrebbe sbizzarrire, trovando possibili nomi al proprio paese. Cotignola, ad esempio, potrebbero diventare:

Chiesadisantostefanochedasullapiazzadifiancoalbarsportdovesiprendelaperitivo
Oppure:
Camposportivovecchiodoveunavoltafacevafestailpcipoiidseilpdsoggiilpddomanichissà

E visto che nel ‘300 divenne proprietà del capitano di ventura John Hawkwood (Giovanni d’Acuto), ecco un’altra possibilità :

Perfortunahawkwoodnoneragallesesenochissacomeca***cichiamavamooggi

Dimenticavo. E Mal dei Primitives?

Il mitico Mal dei Primitives
Il mitico Mal dei Primitives

I più giovani non sapranno nemmeno chi è questo cantante dalla pronuncia italiana caricaturale, interprete di pezzi mitici come “Bambolina”, “Pensiero d’amore” e “Furia cavallo del west”. Ma resta il fatto che ci è sempre stato spacciato per cantante inglese. Eh no! Mal è gallese, perché è nato a Llanfrechfa, vicino all’estuario del fiume Severn.
E la prossima volta che lo invitano a cantare in qualche festa dell’unità dalle mie parti, farò in modo che lo obblighino a pronunciare:
Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch.

Come si deve. Se no, non lo paghiamo!

ps: domani tappa lunga. Forse il blog riposa.