G22 Il maratoneta


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[alert close=”no”]G 22 > Fort Davis (TX) – Marathon (TX) 88 km[/alert]

La ridente cittadina di Marathon, oltre ad avere allegramente usurpato un importante nome storico, ha un’altra particolarità: non ha IL comune, bensì LA comune.

Joe Estes, quello della visita al ranch, mi aveva detto che a Marathon c’era gente un po’ strana, tipo hippy, ma era chiaro che si basava su un racconto tendenziosissimo fattogli da terzi, probabilmente dallo sceriffo.

Sulla strada per Marathon, mi sono fermato in un negozio di bici di Alpine e il proprietario, John, capello lungo biondo e aria un po’ assopita, mi fa:

“Hey, ma se vai a Marathon ti do io un indirizzo dove puoi dormire gratis! Ci mando un sacco di ciclisti come te e trovano tutti posto”. Mi disegna uno schemino e parto con la sua benedizione, ma soprattutto con gli pneumatici rimessi a pressione.

Ora, ammetto di avere avuto sull’istante un riflesso di diffidenza, memore dell’antico ma sempre valido detto romagnolo secondo il quale “nessuno lega il cane con la salsiccia”, vale a dire nessuno ti dà nulla per nulla e quindi è meglio non credere alle promesse troppo mirabolanti.

Così, pedalando controvento, giungo stanco a destinazione e prendo una camera nell’albergo del paese. È un bellissimo edificio storico, mantenuto più o meno com’era quando ci bazzicavano Tex e Kit Carson. Dire che è spartano è riduttivo, nel senso che per il doppio del prezzo di un motel si ha il piacere indescrivibile di non avere il bagno in camera, di avere le pareti di legno attraverso cui si sente tutto, un baldacchino di tronchi di pino, un pavimento pure di legno scricchiolante, che se fai un passo svegli il portiere, un magnifico ventilatore a pale sul soffitto che tocca il lampadario e fa “tic” a ogni giro, insomma, tutto il lusso più sfrenato che neanche al Danieli.

Mancava solo la tinozza per fare un bel bagno, ma vuoi mettere il gusto di attraversare seminudi il corridoio per andare nella “men’s room”?

Insomma, prima di andare al saloon, pardon al bar dell’albergo, che si trova in un locale adiacente, mi prende lo sghiribizzo di visitare questo fantomatico dormitorio gratuito. Dovete sapere che in tutti questi villaggi che attraverso ogni attività che si rispetti si trova sulla “main street”, un po’ come i paesini sulla Romea. La qualche stradina laterale che c’è funge da periferia e costringe gli americani a comperare un pick up per percorrere i 200 metri che li separano dalla bottega degli alimentari.

Ebbene, questa “periferia” mi colpisce sempre, dal tanto che è orrenda. È il regno del “piano regolatore fai da te”, una specie di terra di nessuno in cui si trovano, fianco a fianco su strade non illuminate e non asfaltate, casine graziose in stile tirolese ma con il tetto di lamiera, case “mobili” trasandate, camper che servono da abitazione permanente, cortili di auto abbandonate ad arrugginire e una chiesa fatta a forma di igloo.

Alla fine di tutto questo ben di dio compare un terreno assai vasto, che già al primo impatto visivo mostra una sua differenza: c’è un disordine epocale, ma tutto, a cominciare dalle casette, è diverso, insolito, colorato a tinte vivaci.

E poi ci sono persone, giovani e non, che lavorano con aria intenta ma trovano subito il tempo di accogliermi come se fossi un cugino che non si fa vivo da un po’:

“Sei un ciclista? Che bello, fai pure un giro, entra dove ti pare.

In quella casa laggiù ci sono i miei quadri. Questo è Mark, mi tieni un attimo il badile che ti prendo una birra?

Rimani anche tu a dormire?” E avanti di questo passo.

E io mi metto a girare, a guardare nelle case, a fotografare, ad innaffiare l’orto rigorosamente biologico, finché incontro il proprietario, Gil, originario del Kansas, faccione da attore, pilota d’aereo e Bill, pensionato di Austin che sta qua perché trovava troppo cari gli affitti, e Ali, e Miguel e Matt, un olandese che si sta costruendo una casa proprio lì e mi dice che oggi è il compleanno del suo vicino italiano, Angelo. E non so quanti ancora.

Poi arriva un gruppo di ciclisti, fortunati perché fanno la traversata dell’America da est a ovest e quindi hanno il vento alle spalle! Loro si fermeranno a dormire.

Gil mi spiega che lui vede la sua creatura come un ostello, anzi lo chiama un caravanserraglio. Chiunque è benvenuto, per una notte, un mese, una vita. Basta che contribuisca con quello che sa fare. E i ciclisti sono sempre i benvenuti, tanto che la voce si è già sparsa tramite il tam-tam di internet e presto il “caravanserraglio” farà parte di “Warm showers”, l’associazione che garantisce ospitalità e appunto una doccia calda a chi fa turismo in bicicletta.

Vado via dicendomi che forse ho trovato qualcuno che veramente lega i cani con la salsiccia e per meditare vado al ristorante dell’albergo, dove, per il doppio del prezzo di una camera, si mangia sempre male, ma hai almeno la soddisfazione di vedere un tovagliolo di cotone e delle posate di metallo. Che non è poco.

Ceno e passo dal bar.

Ah, non fatevi l’idea che sia un tiratardi. Da queste parti si cena dalle sei alle sette, dopo le otto ci si mangia le unghie.

Dicevo il bar. Una signora dalla lingua impastata e dall’occhio bovino mi fa: “A est non si trovano tutti questi tipi di tequila!” Sbigottito, vedo il cameriere che le porta, uno dopo l’altro, sei bicchieri di tequila di marche a me sconosciute che lei degusta.

Il marito è di fronte a lei con un otre di Coca cola. Lei, ormai fuori come un balconcino, gli spiega la tequila.

Ultimo colpo di scena. Praticamente metà della “comune” entra nel bar, che scopro essere l’unico locale aperto stasera. Con Gil c’è un omino piccolo, magrissimo, una specie di don Lurio nel fisico e di Dan Peterson nell’eloquio: il mitico Angelo! Ormai so tutto di lui, è venuto da Bari a 15 anni, New Jersey, Vermont, laureato, per vivere fa “un po’ di questo e un po’ di quello” (testuale) e si professa nientemeno che “anarchista”. Beve bourbon. Molto bourbon. E sorride, mi racconta cos’è la vita per lui, mi spiega il paese, mi presenta sua moglie, e mi vuole invitare a dormire da loro e a fare colazione la mattina dopo…

Riesco a tornare nella mia stanza western, che la birra mi fa sembrare ancor più scricchiolante.

Io non so quanti villaggi di provincia riescano, come fa Marathon, a concentrare una clientela così eterogenea, dal filantropo aviatore, all’esperta di tequila, all’ ”anarchista” pugliese, ai figli, nipoti e pronipoti dei fiori, al funzionario europeo di passaggio. Comunque vado a letto contento.

Se il vento continua a essermi contrario, quasi quasi smetto di fare il ciclista.

Divento “Marathoneta”.

Ps: Domani tappone con campeggio. Internet non so. Oggi pioggia e tempo brutto in prospettiva. Sono a Sanderson e il blog ha già un giorno di ritardo. Appena posso, recupero!