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Un calcio alla fortuna

“Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”. Questa citazione del grande Eduardo mi è venuta in mente ieri, mentre visitavo il museo di Vindolanda, famoso forte romano situato più o meno al centro del Vallo di Adriano. In una teca che conservava gli strumenti utilizzati dai medici dell’ospedale militare per cercare di rimediare alle ferite dei legionari, si trova anche un amuleto fallico di pietra, con tanto di spiegazione secondo la quale sarebbe servito a tenere lontano il malocchio!

Chiamarlo amuleto...

Chiamalo amuleto…

Ora, non è dato sapere se l’oggetto in questione fosse fatto stringere al paziente come portafortuna durante un’operazione, se gli venisse dato in testa a scopo anestetizzante o se se lo tenesse nella tunica il chirurgo, timoroso di sbagliare l’intervento. Resta il fatto che anche i Romani erano superstiziosi.

Il certificato...

L’amuleto porta il numero 13…

Ieri sera, poi, mi sono reso conto con una certa apprensione che stavo scrivendo il diciassettesimo post da quando ho iniziato questo viaggio. Si sa che il numero 17 è considerato un numero sfortunato; quello che forse si sa meno, è che secondo la maggior parte degli studiosi, questa superstizione sarebbe nata proprio nell’antica Roma, poiché era radicata la consuetudine di incidere sulle pietre funerarie la parola “VIXI”, che in latino significa “sono vissuto”. Fra i tanti possibili anagrammi di VIXI, l’unico numero che può uscire è XVII, appunto il numero 17, il quale sarebbe diventato così il numero della morte, ovvero il numero sfortunato per eccellenza. Un’altra ipotesi fa risalire il tutto alla terribile sconfitta della foresta di Teutoburgo dell’anno 6 d.C. in cui Publio Varo perse, oltre alla propria vita, anche tre intere legioni, la XVII, la XVIII e la XIX. Di conseguenza questi numeri non furono più attribuiti a nuove unità militari. Diciamo che vennero ritirati, un po’ come la maglia di Maradona a Napoli, e quello che più ne fece le spese nell’immaginario popolare fu il 17.
Ovviamente sono tutte superstizioni da non prendere in considerazione. Basta fare come me, e tenere a portata di mano quei due o tre amuleti che ogni persona sensata ha come naturali accompagnatori in ogni viaggio importante…

Resti del forte

Resti del forte

Ma dicevo del Vallo di Adriano. Certo, non è la Muraglia cinese, ma a me è piaciuto tantissimo. Il punto di partenza per la visita è la città di Carlisle (o meglio Luguvalium) che, detto fra parentesi, di suo non meriterebbe neanche il tempo di un caffè, tanto è insipida come città e completamente priva di carattere. Comunque, da qui parte un ottimo servizio di corriere che copre i 120 chilometri del muro originario e che, molto opportunamente, porta il nome di AD 122, cioè l’anno in cui cominciarono i lavori. Sei anni dopo, l’opera era praticamente completata: un muro largo 2-3 metri e alto 5, 80 fortini intervallati da torrette e altri 14 forti ausiliari. Un insediamento per i civili situato fuori da ogni forte, una strada militare e un fossato tra due grandi argini (questo è il “vallo” vero e proprio). E chissà quant’altro ho dimenticato.

Le latrine comuni

Le latrine comuni

Sono riuscito a visitare due forti nel corso della giornata e in entrambi casi ho avuto la fortuna di arrivare in tempo per la visita guidata condotta da volontari del National Trust, associazione benemerita di protezione del patrimonio. Inutile che stia a descrivere le rovine, ma due cose mi piace sottolinearle.

I forti del Vallo di Adriano non erano occupati da legionari (che erano per definizione cittadini romani), bensì da truppe ausiliarie, cioè da soldati dell’Impero che sarebbero diventati cittadini romani solo alla fine del periodo di leva, fissato a 25 anni. Ebbene, le guarnigioni dei forti che ho visitato avevano una composizione che è un manifesto anti-discriminazione. Da una parte c’erano Tungri e Batavi, che oggi chiameremmo Belgi e Olandesi, che avranno trovato anche condizioni atmosferiche molto simili a quelle delle Fiandre. Dall’altra parte, c’erano coorti di arcieri siriani e di cavalieri iracheni, e non oso immaginare lo spaesamento di uno abituato al deserto, che si ritrova a pattugliare in mezzo all’erba fradicia alta fino alle ginocchia. Il tutto avendo il latino come lingua franca e legionari romani come comandanti, inviperiti per essere stati mandati sul confine più umido dell’impero (a proposito di sfortuna).

The wall

The wall

La seconda cosa interessante è che le pietre squadrate usate per costruire il muro e tutti gli edifici circostanti sono state oggetto di un clamoroso furto di massa nel corso dei secoli, addirittura fino al secolo scorso. Basta osservare una qualsiasi fattoria, un qualunque villaggio nella zona circostante e si vede che fine hanno fatto quei blocchi di pietra calcarea estratti quasi 2.000 anni fa.
Ma la cosa più straordinaria è che, se non fosse stato per questa razzia, muro e edifici sarebbero in gran parte ancora in piedi, nonostante lo stato di abbandono, come testimoniano racconti di testimoni oculari di inizio ‘800! La spiegazione si trova in una recente ricerca dell’università della California, secondo la quale l’impasto cementizio utilizzato ai tempi dell’Impero era molto meglio di quello che sappiamo fare oggi. Era molto più resistente del cemento-tipo (Portland), che dopo una cinquantina d’anni comincia a sgretolarsi.

La torre di guardia

La torre di guardia

La cosa più divertente della visita, però, è stata la guida, che ha saputo dipingere l’architettura e la vita del forte in maniera così vivace da far dimenticare il suo accento del nord est dell’Inghilterra (accento “geordie”), che ad un orecchio non allenato può risultare particolarmente ostico. Ho registrato due spezzoni della sua performance, come monito a chi sta per visitare Newcastle. In bocca al lupo…

1 Ma quanti forti c’erano?
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2 Forti di ieri, forti di oggi
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Ma da ultimo, mi piace ricordare che l’imperatore Adriano, oltre che per il Vallo, è passato alla storia per aver lanciato una moda: fu il primo a lasciarsi crescere la barba e la gran parte degli imperatori e del popolo romano lo imitarono per i centocinquant’anni seguenti.

Barbudos

Barbudos

C’è chi dice che lo facesse per nascondere la cicatrice di una ferita. Altri, più maliziosi, sostengono che lo facesse per sfuggire al tormento della rasatura quotidiana, che i “tonsor” di allora facevano con un semplice rasoio di ferro. Scrive Marziale in uno dei suoi epigrammi (VIII, 52)

«… Le stimmate che io porto sul mento
quante un grugno ne ostenta
di pugile in pensione, non mia moglie
me l’ha fatte, folle di furore,
con le sue unghie, ma il braccio
scellerato d’Antioco e il suo ferraccio…»

Per me, la spiegazione è un’altra. Adriano fece un po’ come Bergomi, che nell’82 si lasciò crescere i baffi. Adriano si lasciò crescere la barba perché sapeva che gli avrebbe portato fortuna. E infatti, riuscì in pieno nel suo intento di tenere a bada i Pitti.

E Bergomi vinse il Mondiale.

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Ps: Chissà quanti campionati avrebbe vinto l’Inter se, quando comprò Adriano e lo chiamò “l’imperatore”, Moratti si fosse ricordato di fargli crescere la barba un po’ più lunga!

 

Ppss: Domani tappa lunga. Il blog riposa