Di salita, come si sa, in America ce n’è di due tipi: quella carogna, e quella peggiore.
Oggi, su 75 km percorsi, una cinquantina erano di salita, equamente divisi fra i due tipi.
Il primo tipo di salita ha come sfondo uno stradone completamente diritto che si perde all’orizzonte: non se ne vede la fine, ma il manubrio è all’altezza degli occhi e sembra di avanzare trattenuti da un elastico.

Nel secondo caso, la strada si perde egualmente nell’infinito, ma con una aggravante: sembra l’ottovolante di Mirabilandia. Una successione continua di salite da alpinista, seguite da discese a rotta di collo.

I buoni d’animo li chiamano saliscendi, i ciclisti parlano di mangia e bevi, resta il fatto che il nastro stradale sembra essere stato compresso da una forza sovrumana, al punto da farne una fisarmonica.

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Dida 2

In queste condizioni, un europeo continentale soffre ogni volta che guarda il contachilometri, il quale è, ovviamente, tarato in miglia. La cifra che mi è rimasta impressa nella retina oggi è 4. Quattro miglia equivalgono a 6,5 km, ma psicologicamente la differenza è enorme: è il fossato che a scuola separava la sufficienza dall’insufficienza. E a nulla mi serviva vedere a volte dei 4,3 o 4,7. Era come dire che avevo preso 5 più in matematica!

Comunque, di riffa o di raffa sono arrivato prima a Pine Valley, poi alla vera meta della giornata, la ridente (si fa per dire) cittadina di Jacumba (400 abitanti). Trattasi di un centro termale ben frequentato fin dall’inizio del ‘900 per le sue acque solforose e i suoi bagni di fango, le cui virtù curative erano già ben note da tempo immemorabile agli indiani della zona. E in effetti, guardando lo stato di conservazione dell’unico motel adibito a terme, si intuisce che furono gli uomini di Geronimo gli ultimi a dare una rinfrescata alle pareti.

Il confine messicano corre a 100 metri da Jacumba, e lo si vede benissimo. A vista d’occhio si distingue un “muro” alto parecchi metri, costruito forse per evitare che i cittadini americani vadano in Messico a comperare tequila sottocosto… 🙂

Scusate la battutaccia, ma la vista del muro e di decine di mezzi della guardia di frontiera americana (quella dei formulari, per capirci) che pattugliano continuamente la zona, mi ha messo di cattivo umore.

Tutti-al-muroAl giorno d’oggi, ci sono 930 km di barriere su 3.000 km di confine, sensori, telecamere a infrarossi e cani addestrati. Cinquemila morti in 13 anni (dati della American Civil Liberties Union), per lo più mentre cercavano di attraversare il deserto della Sonora, o rimasti intrappolati in tunnel sotterranei. Tutto per tener fuori la manodopera senza cui la California sarebbe in ginocchio.

Ma il più bello me l’ha fatto vedere Fernando, il cuoco messicano del motel.

Appurato che non ero un “gringo”, mi ha mostrato dalla sua cucina una sezione del muro da cui spesso entrano clandestini. Come?

Agganciano la parte superiore di un palo della barriera usando un lazo. Poi si issano a forza di braccia, scavalcano e saltano giù.

In perfetto stile vaquero. Anzi, cowboy!