Desert storm
Stamattina ho fatto un discorso molto chiaro ai tendini del mio ginocchio destro: “Ragazzi, il prossimo albergo è a 140 km. Se avete intenzione di lamentarvi tutto il giorno, ditemelo subito e restiamo a letto!”. Hanno promesso di fare i buoni e, dopo un massaggio alla canfora, hanno cominciato a macinare strada.
Confesso subito di essermi fatto un decreto interpretativo sul concetto di viaggio solitario: il gruppo con cui ho cenato ieri sera mi ha fatto un’offerta che non potevo rifiutare. Visto che la tappa è obbligata, perché non mettere le mie due sacche sulla loro auto, in modo da facilitarmi la vita per un giorno? Detto fatto e, col senno di poi, dico “per fortuna”!
Conoscendo i miei limiti, ho pensato bene di partire prima di tutti alle 7 in punto. L’inizio è stato perfetto: freschino, brezza alle spalle e sole che pian piano si alza ad illuminare la pianura dell’allevamento di bestiame e dell’agricoltura intensiva. Pascoli, campi di erba medica immensi, pecore al pascolo e un serraglio di vitelli di almeno (non esagero) 1 km quadrato.
Ma dopo una trentina di chilometri, ecco apparire, improvviso e magnifico, il deserto. Dapprima una distesa di terra e sabbia punteggiata di rara macchia desertica e qualche cactus, poi il vero e proprio deserto di dune: uno spettacolo maestoso! Unico problema, la sabbia sospinta dal vento che, oltre ad appiccicarsi alla pelle, ricopriva la strada per chilometri: come quando si correva la Formula 1 a Zandvoort, in Olanda, ma questa è un’altra storia.
Dopodiché, una lunga salita in un paesaggio lunare, fra catene di montagne completamente brulle e colorate di varie sfumature di marrone: non a caso le chiamano Chocolate Mountains!
L’ultima parte della tappa si è snodata di nuovo su terreno pianeggiante, fra grandi campi d’erba medica e possenti impianti di irrigazione.
Fin qui la nuda cronaca. Ma la realtà è stata un po’ diversa.
Intanto, ho fatto conoscenza con un nuovo nemico: il vento contrario. E che vento: avere il vento in faccia, più che a favore, oggi voleva dire viaggiare a 7 miglia all’ora invece di 17. Ho avuto un momento di sconforto notevole quando ho pedalato controvento in salita per una decina di chilometri, poi per fortuna la statale ha piegato a est e il vento è diventato perlomeno laterale. Poi ho avuto un’altra dose di avvallamenti: la famosa strada a fisarmonica che, sembra, sarà la caratteristica pressoché unica del Texas.
In tutto questo, qualcosa da raccontare comunque c’è.
Dopo le città “disincorporate” e le città fabbrica, ho trovato la città bazaar, nel senso che l’unico edificio esistente contiene l’unico negozio che vende tutto e il suo contrario. Si chiama Glamis e il proprietario del negozio è probabilmente la seconda persona più ricca del mondo dopo il sultano del Brunei, visto quello che fa pagare per un Gatorade. D’altra parte, nel giro di 40 km da ambo i lati c’è solo sabbia e cactus, quindi… accomodarsi alla cassa, please!
A dire il vero però, poco prima di Glamis c’è un quarto tipo di insediamento urbano atipico: la città dei dementi. Sei tendoni e un chiosco su ruote, tutti appoggiati sulla sabbia, adibiti i primi a magazzini e il secondo a fornitore di (sic) colazione, pranzo e cena.
Parcheggiati sulle dune, una lunga teoria di Suv e di pick-up che servono a trasportare i cosiddetti quad, quelle specie di mostri su quattro ruote che hanno la particolarità di non servire assolutamente a niente se non a far correre sulla sabbia i loro possessori, i dementi di cui sopra.
La vera nota positiva è che oggi il percorso della tappa era frequentatissimo: ho incontrato infatti un gruppo di una dozzina di ciclisti che fanno la traversata come me, ma sono inquadrati da Adventure Cycling (quelli da cui ho comperato le cartine stradali, per intenderci). Ho affiancato tre o quattro di loro e ne sono nate conversazioni interessanti. Una in particolare, con Elias, detto Ely (pronuncia Ilài): dopo aver ripetuto tre volte la stessa domanda urlando come un’aquila, ho concluso che era sordo come una campana.
Esempi di conversazione:
Emilio: L’altimetro che ho al polso segna 150 metri
Ilài: Sì sono le dieci!
E: Siete partiti anche voi da Brawley stamattina?
I: Dodici !
E: And where are you from?
I: Io parlo uno poco italiano, uguale como lo spagnolo, ma cantando…
A quel punto ho lasciato il buon Ilài al suo destino, per poi apprendere nel corso del pomeriggio da un altro partecipante che Ilài ha una coclea artificiale nell’orecchio; per poter sentire bene, deve inserire due spinotti in due prese tipo stereo che gli spuntano dal cranio.
Unico vantaggio: può ascoltare l’ipod senza auricolari.