Ci sono un americano, un canadese e un italiano…

C’è poco da fare. In America le cose normali non esistono. Le salite le ho descritte ieri, oggi mi soffermo sulla discesa più spaventosa che abbia mai dovuto affrontare.
Partito dalle “terme” di Jacumba, salgo fino ai 1300 metri circa del passo In-Ko-Pah. A quel punto si entra sulla I-8, una freeway, come la chiamano qua, normalmente vietata ai ciclisti, ma permessa laddove è l’unica strada disponibile.
La-cattedrale-nel-desero-3L’autostrada taglia a metà una gola ripidissima e scende a capofitto verso il fondovalle. La pericolosità viene dalle folate fortissime di vento che giungono lateralmente e possono rovesciare persino un mezzo leggero, figuriamoci una bicicletta!

Per farla breve, in una quindicina di km si scende a razzo (velocità massima raggiunta 66 km/h) da 1.300 metri fino a zero (il deserto dello Yuha) e subito dopo addirittura sotto il livello del mare, allorché si attraversa la Imperial Valley, nota per la sua produzione agricola.

Box-nel-desertoIl resto della giornata è stato fondamentalmente pianeggiante, ma con strade che definire pessime è un complimento e con alcune curiosità degne di nota. La prima è Plaster City, segnata a tutti gli effetti sulla cartina come centro abitato e con tanto di cartello di benvenuto.

Ebbene, a Plaster City c’è solo, unicamente ed esclusivamente una fabbrica di gesso, equamente distribuita ai due lati dell’unico stradone, ovviamente vuoto e diritto a perdita d’occhio. Nessuna abitazione, nessun negozio. Non si vede anima viva. Lungo la strada, incredibilmente, una linea bianca e uno stop. E ancor più incredibilmente, mentre sono lì passa un solo camion (visibile già da circa 10 km) che si ferma allo stop, guarda e riparte.

La-cattedrale-nel-deserto-2Spinto dalla curiosità, sono entrato in una baracca pomposamente definita Human Resources office e con la scusa di riempire le borracce ho cercato di fare due chiacchiere con l’unico impiegato: niente da fare, scontroso come un orso. Mi sono chiesto se tratta così anche le sue risorse umane, ma alla fine non deve essere facile fare il sacerdote in una cattedrale nel deserto!

Il secondo fatto saliente della giornata è che sono stato raggiunto da quattro simpaticissimi personaggi che fanno il mio stesso giro: Lee, Keith, Dave e Gaby, due americani, un canadese e una tedesca. In realtà, loro hanno bici da corsa e uno, a turno, guida la macchina con i bagagli, per cui contano di completare la traversata in 35 giorni all’incirca. Per qualche chilometro ho sfruttato la loro scia e alla sera abbiamo cenato insieme in un immancabile ristorante messicano.

Keith-Dave-Lee-GabyCi siamo raccontati la giornata e, dopo regolare scrutinio, l’assemblea mi ha eletto all’unanimità sindaco di Plaster City.

Come primo atto della legislatura farò togliere quello stop ridicolo.

Metterò al suo posto una rotonda.

Jacumba – Brawley (95 km)

Ghe pensi mi (In ricordo di Tino Scotti – v.G-37)

L’americano medio vuole che lo stato interferisca il meno possibile nella sua vita. Almeno, fino a che non gli fa comodo.
Durante il secondo giorno, i cartelli stradali che annunciavano l’inizio dei vari villaggi recavano una scritta che mi incuriosiva: unincorporated community.

In due parole, sono delle comunità di persone che hanno scelto, per motivi storici, ma a volte anche fiscali, di non costituirsi in comuni.

L’amministrazione della cosa pubblica, ivi compresa la fornitura di servizi, la giustizia, la protezione ambientale, i parchi, i pompieri, tutto insomma, è affidato “per difetto” ad una amministrazione “superiore”, nel caso di specie quasi sempre la contea. Stiamo parlando, fra parentesi, di svariati milioni di abitanti della California.

Omsilaredef 2

La stampa locale fa cenno dell’intenzione di molti altri comuni normalmente costituiti di voler seguire la strada della “disincorporazione”. Il motivo è che non riescono più a far quadrare il bilancio, che si basa sui proventi della tassa dell’1% sugli acquisti fatti sul territorio.

Proviamo a vedere cosa potrebbe succedere in Italia se si andasse in questa direzione. Puntiamo il dito a occhi chiusi su una cartina del nostro paese e cadiamo, casualmente, sul ridente borgo di Cotignola (Ravenna).

Poniamo che il sindaco Antonio (nome di fantasia) non ce la faccia più a pagare lo stipendio al personale del comune. Allora va dal presidente della provincia e gli dice: “Francesco (altro nome di fantasia), queste sono le chiavi del Comune, da domani ci pensi tu a tagliare l’erba nel campo sportivo”. Se tutti i comuni della provincia facessero la stessa cosa, Francesco andrebbe dal presidente della regione Vasco (nome di fantasia) e gli passerebbe le chiavi del palazzo della Provincia. E così via.

È chiaro dove voglio arrivare. Se facciamo come in California, l’amministrazione del Comune di Cotignola finisce che la faccio io in ufficio a Bruxelles, per conto dell’Unione Europea. Io ci sto anche, ma non chiamate per favore dalle 10 alle 10.30 perché faccio la pausa caffè.

Questo ho imparato pedalando in California. È il contrario della sussidiarietà.
È il concetto di “Omsilaredef”, ovvero “federalismo” alla rovescia.
Come scritto nel titolo 🙂

Ps: Per le domande di condono edilizio e scudo fiscale, scrivere alla mia casella postale alle isole Cayman.

Di salita, come si sa, in America ce n’è di due tipi: quella carogna, e quella peggiore.
Oggi, su 75 km percorsi, una cinquantina erano di salita, equamente divisi fra i due tipi.
Il primo tipo di salita ha come sfondo uno stradone completamente diritto che si perde all’orizzonte: non se ne vede la fine, ma il manubrio è all’altezza degli occhi e sembra di avanzare trattenuti da un elastico.

Nel secondo caso, la strada si perde egualmente nell’infinito, ma con una aggravante: sembra l’ottovolante di Mirabilandia. Una successione continua di salite da alpinista, seguite da discese a rotta di collo.

I buoni d’animo li chiamano saliscendi, i ciclisti parlano di mangia e bevi, resta il fatto che il nastro stradale sembra essere stato compresso da una forza sovrumana, al punto da farne una fisarmonica.

Tutti-al-muro-2

Dida 2

In queste condizioni, un europeo continentale soffre ogni volta che guarda il contachilometri, il quale è, ovviamente, tarato in miglia. La cifra che mi è rimasta impressa nella retina oggi è 4. Quattro miglia equivalgono a 6,5 km, ma psicologicamente la differenza è enorme: è il fossato che a scuola separava la sufficienza dall’insufficienza. E a nulla mi serviva vedere a volte dei 4,3 o 4,7. Era come dire che avevo preso 5 più in matematica!

Comunque, di riffa o di raffa sono arrivato prima a Pine Valley, poi alla vera meta della giornata, la ridente (si fa per dire) cittadina di Jacumba (400 abitanti). Trattasi di un centro termale ben frequentato fin dall’inizio del ‘900 per le sue acque solforose e i suoi bagni di fango, le cui virtù curative erano già ben note da tempo immemorabile agli indiani della zona. E in effetti, guardando lo stato di conservazione dell’unico motel adibito a terme, si intuisce che furono gli uomini di Geronimo gli ultimi a dare una rinfrescata alle pareti.

Il confine messicano corre a 100 metri da Jacumba, e lo si vede benissimo. A vista d’occhio si distingue un “muro” alto parecchi metri, costruito forse per evitare che i cittadini americani vadano in Messico a comperare tequila sottocosto… 🙂

Scusate la battutaccia, ma la vista del muro e di decine di mezzi della guardia di frontiera americana (quella dei formulari, per capirci) che pattugliano continuamente la zona, mi ha messo di cattivo umore.

Tutti-al-muroAl giorno d’oggi, ci sono 930 km di barriere su 3.000 km di confine, sensori, telecamere a infrarossi e cani addestrati. Cinquemila morti in 13 anni (dati della American Civil Liberties Union), per lo più mentre cercavano di attraversare il deserto della Sonora, o rimasti intrappolati in tunnel sotterranei. Tutto per tener fuori la manodopera senza cui la California sarebbe in ginocchio.

Ma il più bello me l’ha fatto vedere Fernando, il cuoco messicano del motel.

Appurato che non ero un “gringo”, mi ha mostrato dalla sua cucina una sezione del muro da cui spesso entrano clandestini. Come?

Agganciano la parte superiore di un palo della barriera usando un lazo. Poi si issano a forza di braccia, scavalcano e saltano giù.

In perfetto stile vaquero. Anzi, cowboy!

Alpine – Jucumba (75km)

California liberals

L’assessore alla cultura e alla viabilità del comune di Santee, città satellite e dormitorio di San Diego, è una persona coltivata, che va giustamente fiera della sua laurea in storia europea.

È per questo che, ogni qualvolta deve dare un nome ad una strada nuova in questo agglomerato in rapida espansione, la sua scelta cade immancabilmente su luoghi famosi o personaggi storici del nostro continente, con una malcelata predilezione per l’impero austro-ungarico: Austerlitz, Vienna, Francesco Giuseppe, Metternich e così via.

Recentemente, il nome prescelto è stato quello di una imperatrice di cui tutti abbiamo sentito parlare, se non altro perché è stata incarnata in un bellissimo film del ‘55 dall’attrice Romy Schneider: la principessa Sissi.

Pedro Gutierrez (detto “Ramones” per i suoi trascorsi musicali) è il personaggio di riferimento della comunità di immigrati messicani che gravita attorno a questa nuova strada. Colto da un dubbio, ha consultato internet alla biblioteca comunale e ha trovato la seguente definizione: Sissy is a pejorative for a boy or man to indicate that he fails to behave according to the traditional male gender role. Generally, it implies interests seen as strikingly un-masculine.

Cioè, traducendo, il termine sissy è un insulto bello e buono alla virilità di tutti gli abitanti (maschi) della strada, che si ritengono tutto fuorché un branco di effeminati. Che il nome della principessa si scriva con una “i” finale e non una “y”, non cambia nulla alla sostanza dell’offesa.

Punto sul vivo, Gutierrez ha dichiarato alla stampa locale: “There ain’t no sissies in this barrio” e ha proceduto a sistemare le cose a modo suo, come da foto.

L’assessore ha abbozzato e, da ora in poi, in nome dell’integrazione e della pace sociale, tutti i libri di storia della contea di San Diego ci parleranno di Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, meglio nota come principessa Macho.

Viva Ramones!

Mattinata nuvolosa per la partenza da San Diego. I preparativi sono lenti, ma è normale, devo farmi una routine. Ho due “assistenti”: Ron, il proprietario, mi fa le raccomandazioni d’uso e David mi dà il suo numero e dice di chiamarlo se mi succede qualcosa. Buffo, David. Dice che ha girato l’America come camionista e mi raccomanda di fare attenzione in Texas, dove spesso i gabinetti non hanno le porte e questo può creare problemi di (sic) concentrazione. Ne avevo sentite tante sul Texas, ma questa mai!

A pieno carico.

A pieno carico.

Ho comperato una bicicletta fatta apposta per le lunghe distanze, la mitica Surly Long Haul Trucker: poche concessioni al design, colore terrificante, telaio in acciaio, ma una solidità confermata negli anni e tanti piccoli accorgimenti che alla lunga possono fare la differenza. Unico neo, il peso (il mio, oltre a quello della bici!).

Il bagaglio sta in due sacche impermeabili appese ai lati e una sacca sul portapacchi, più una borsa appesa al manubrio con l’essenziale. Il carico è stabile, ma sollevare il retro della bici prendendola per la sella è praticamente impossibile. Avete presente quando vi viene chiesto di spostare il divano di ciliegio massiccio che la povera nonna vi ha lasciato in eredità? Ecco, questo è peggio. Bisogna veramente “imparare” a guidare quando il carico grava sul retro. I movimenti bruschi non sono tollerati, bisogna fermarsi con prudenza per non perdere l’equilibrio e voltarsi con cautela.

Il primo giorno è difficile per definizione: abitudine alla bici, traffico in uscita sostenuto, cartina a tratti approssimativa, salita, tanta salita e si capisce perché sono riuscito a fare solo 53 km.

Un po’ di turismo: ho visitato la basilica di San Diego di Alcalà, prima missione francescana nella California alta, fondata a fine ‘700 da padre Junipero Serra, personaggio peraltro molto controverso. Qualcuno ricorderà la sua beatificazione nel 1987, fra polemiche, accuse di violenza e addirittura di genocidio nei confronti degli indiani, costretti a convertirsi con la forza. Comunque è in dirittura d’arrivo: il Comitato che sostiene la sua causa è alla ricerca di un ultimo miracolo da attribuirgli, indispensabile perché la Chiesa lo faccia santo. Adesso che ci penso, un mio amico ottimista mi ha predetto che in Florida ci arrivo solo con un miracolo.

Quasi quasi, scrivo al Comitato…

L’arrivo di oggi è ad Alpine, una cittadina turistica, carina senza nulla più, a 561 metri. Le persone sane di mente ci arrivano da San Diego in mezzora d’auto per bere il caffé al fresco. Domani, so che si comincia con un’altra salita molto dura per arrivare al villaggio di Pine Valley.

Meglio prendere questo giro con le molle. Chi va piano…

Come cerimonia propiziatoria, il battesimo non ha rivali. C’è il battesimo dell’aria, c’è il battesimo delle navi e c’è, perché no, anche il battesimo delle biciclette.

Tradizione vuole che quando ci si accinge a fare la traversata dell’America si immerga la ruota posteriore in un oceano a scelta. All’arrivo, si immerge la ruota anteriore nell’altro oceano. È una vecchia superstizione, ovviamente, e io non sono superstizioso. Però, come dicono anche i romagnoli più miscredenti, non si sa mai! Mi sono quindi diligentemente recato a Dog Beach, che è l’unico luogo autorizzato dalla tradizione per eseguire il rito.

Il nome non è casuale. È l’unica spiaggia di tutto il litorale della contea in cui sono ammessi i cani. Il tasso di proprietà di cani è stimato dalle autorità comunali di San Diego al 25%, cioè un cane ogni 4 abitanti.

Risultato: potenzialmente, un milione e trecentomila cittadini di San Diego portano a cagare su una spiaggia di 200 x 100 metri la bellezza di 325.000 cani ogni giorno.

Giuro che l’affollamento è da ferragosto a Riccione. Arrivano ondate di pick-up e ne scendono personaggi di tutti i tipi che hanno in comune: un cane, la paletta, il guanto in nylon trasparente e il sacchetto di plastica che deve essere portato via e smaltito altrove. “E la polizia che fa?”, si chiede il cittadino inquieto. Beh, ci porta i cani antidroga!

Passato lo sbigottimento iniziale, ho chiesto ad una coppia proprietaria di un essere strano, probabile incrocio fra un molosso e una Jeep, di scattare le foto del battesimo del mio velocipede. E poiché il Pacifico non è l’Adriatico, mi sono ritrovato con 30 cm. d’acqua al garrese e la catena e il cambio a mollo nell’acqua salata.

Ma tant’è.

Servirà, non servirà? Pensandoci bene, penso proprio di sì.

Dopotutto, i francesi, per augurare buona fortuna, dicono “merde”, n’est-ce pas?

Un passo indietro. Maggio 2009. Una volta presa la decisione di fare la traversata degli States, vado a parlare con Richard Earney, il responsabile dei preparatori atletici di Aspria, la palestra di Bruxelles in cui sudo più o meno svogliatamente da una decina d’anni.

Richard è un giovane neozelandese entusiasta, cortese e attento.

Gli racconto la mia storia e lui, invece di chiamare la neurodeliri, mi guarda, si illumina e mi fa: “ Grazie. Finalmente un progetto vero, non ne potevo più di tutta questa gente che viene da me perché vuole perdere 1 chilo in 10 settimane, o 10 chili in 1 settimana!”. Detto fatto, mi prepara una lista di cibi e comportamenti alimentari consigliati e mi affida per la parte fisica a Natalie.

Natalie è appena arrivata da, indovinate dove?… la Nuova Zelanda ! Stesso carattere, stessa motivazione e tantissima disponibilità. Nel giro di una settimana mi organizza una sessione di test fisici, da cui risulta che sono più o meno una pippa. E giù con il primo programma di allenamento, che mette assieme lezioni di spinning, muscolazione e bici in strada.

Vi risparmio il seguito: un programma nuovo (e più pesante) ogni due mesi, roba che se incontro Governator (così chiamano Schwarzenegger in California), me lo mangio vivo.

Basti dire che mi sono sorbito un centinaio di ore di spinning e quasi altrettante sedute di rafforzamento e stretching. Peccato che l’allenamento stradale, quello più importante, sia stato deficitario, a causa del peggior inverno che il Belgio abbia conosciuto dall’ultima glaciazione. Resta il fatto che, grazie all’aiuto di queste due persone splendide, mi sento pronto ad affrontare un percorso lungo, difficile e impegnativo, sia dal punto di vista fisico che mentale. E scusate se è poco.

Last but not least, un caldo ringraziamento a Noah, un giovane di 25 anni che lavora da Adams Avenue Bicycles, il negozio di San Diego da cui ho comprato la bici. L’ho contattato alcuni mesi fa, abbiamo discusso della soluzione migliore e concordato l’acquisto di una Surly Long Haul Trucker. Pesante, con telaio d’acciaio, ma solida e soprattutto stabile. Come dire che potevo comperare un cavallo da corsa e invece ho comperato un mulo. Non sarà veloce, ma non teme il carico ed è progettata proprio per queste situazioni.

Noah ha lavorato benissimo per adattare la bicicletta alle mie esigenze e oggi, dopo due giorni di prova in giro per la città, ho ritirato il prodotto finito. Splendido!

Il più è fatto, ormai. Rimangono solo 5.200 km. da pedalare. Come direbbero i miei amici toscani, è una giacchettata! A stasera per la cronaca della prima giornata.

English translation: Thank you, guys!

In mancanza di una definizione condivisa di paradiso in terra, molti si accontenterebbero di vivere a San Diego, considerandola un buon surrogato.

Trecento giorni di sole all’anno e inverno mite. Città pigra ma vitale, chilometri di spiagge pulite, le montagne a mezzora d’auto. Opulenta, grazie al turismo e alla imponente base militare. Quartieri residenziali con l’erba pettinata, ma anche una zona universitaria vivace e assenza di ghetti. Criminalità ai minimi, gente cordiale e visibilmente meno stressata della media.

Nella zona dove mi sono acquartierato prima della partenza, le strade si incrociano ad angolo retto; sono diritte, larghe come i Campi Elisi a Parigi, e i nomi lasciano ben poco spazio alla fantasia: Prima, Seconda, Terza Avenue… incontrano Jefferson, Lincoln, Washington… insomma tutta la trafila dei presidenti e degli stati dell’Unione. Il problema è che le strade sono di una lunghezza spropositata, e la numerazione diventa ben presto paradossale: io ad esempio sto in Alabama Street, al civico 4.086! Quindi, la frase: “Oh, che bello! Visto che abitiamo tutti e due in Florida Street, perché non viene a prendere il tè domani?”, è da evitare a tutti i costi.

È come se due che abitano sulla via Emilia, uno a Imola e l’altro a Rimini, si considerassero vicini di casa. Come disegno architettonico, invece, ci siamo: casette di legno alte non oltre un piano, libertà estetica, un senso di gioiosa anarchia dei colori e delle forme, rinforzata dall’esplosione della primavera in tutti i giardini e da grandi quantità di eucalipti, palme e cactus.

Eppure, eppure… da subito c’era qualcosa nell’arredamento urbano che non mi quadrava e quando l’ho capito non volevo crederlo: nel quartiere manca quasi del tutto l’illuminazione pubblica! Tra sì e no c’è un lampione agli incroci, a volte manco quello, e vista la larghezza delle strade…

Risultato: pur di non pagare un centesimo di tasse in più al comune (che infatti è alla bancarotta), gli abitanti della quinta città più ricca degli Stati Uniti illuminano i marciapiedi e la strada tenendo accesa la luce tutta notte davanti a casa e/o in giardino. A spese loro. Ma ormai la gara è lanciata: chi vincerà la guerra degli status symbol? La lampada alogena in oro 24k di Gucci, o l’antinebbia di Bulgari tempestato di diamanti? Di sicuro una nicchia per le esportazioni del made in Italy.

E un posto di lavoro sicuro per ogni immigrato messicano.

 

Come guardiano del faretto!

La direttiva europea 74/1999 prevede norme dettagliate affinché gli allevatori di galline in batteria tengano gli animali in condizioni igieniche ed etologiche accettabili, garantendo ad ognuno almeno 600 cm2 (cioè uno spazio di 30 x 20, che non è certo esagerato: come dire che un essere umano, mutatis mutandis, ha diritto ad uno spazio di circa tre metri per due).

Questa direttiva importantissima non si applica, purtroppo, alle bestie che salgono sugli aerei della British Airways in classe economica, pardon… world traveller.
Undici ore è durato il calvario, incastrato a forza in un sedile in cui riuscivo a entrare solo prendendo la mira. E ogni volta che appoggiavo il gomito sul bracciolo per evitare lo schiacciamento della cassa toracica, finivo per premere l’interruttore della luce della plafoniera. Un incubo, esacerbato dalla presenza alla mia destra di una signora che deve aver fatto dell’antipatia una ragione di vita. Riuscendoci perfettamente.

A bordo era tutto in puro stile Dickens, nel senso di Oliver Twist per la qualità del cibo e David Copperfield (l’illusionista) per il servizio.
Si è raggiunto il ridicolo quando l’area di servizio/cucina che separa le due parti della tradotta si è trasformata in una specie di self-service, con il personale di bordo a chiacchierare beato e i passeggeri in fila a servirsi a piacimento. Sembrava un pullman di tifosi in autogrill che svuotano gli scaffali senza passare alla cassa!

A Los Angeles, esaurite le formalità e consegnati i mitici formulari doganali, ho preso la corriera fino a Union Station, considerata l’ultima (in ordine di tempo) delle grandi stazioni ferroviarie americane, edificio cult del cinema, per essere servita da sfondo in decine di film, fra i quali ricordo al momento Blade Runner e Pearl Harbour.

Se la stazione risale alla fine degli anni ’30, lo stesso purtroppo si può dire della qualità del collegamento garantito da Amtrak, il gestore privato della rete, in questo pomeriggio di venerdì. Trenta dollari per il biglietto, ma alla partenza si annuncia che vi sono solo posti in piedi. Caos indescrivibile, accatastamento di corpi, valigie e computer per oltre un’ora. Poi, lentamente, il pendolare stanco giunge alla sua casetta sull’oceano e lascia al viandante stravolto uno strapuntino su cui crollare.

Finalmente San Diego. Manca la metà dei bagagli consegnati alla partenza (grande idea questa, se solo funzionasse), ma per fortuna il mio c’è e con quello mi avvio al taxi, ultimo mezzo di trasporto della grande odissea.
Salgo. Segue breve conversazione che fa pensare alla vecchia barzelletta del tipo che va dal veggente e bussa: “Toc toc”
“Chi è?”
“Ah, cominciamo bene!”:
Emilio: Alabama Street, please
Taxista: What?
E: Alabama Street 4086, please
T: Do you know where that is?
E: I kind of thought that you would know…
T: No, I don’t. Let me get the GPS !

Stranamente, la voce del GPS appeso al vetro gli dice di svoltare a destra, ma lo schermo indica a sinistra. L’uomo è perplesso. Accosta, studia l’oggetto con circospezione, lo tocca. Se non fosse che il tassametro corre, lo lascerei anche fare per vedere qual è il limite dell’idiozia umana. Ma sono troppo stanco, sono le 9 e la notte è buia.

Gli dico che l’ha montato alla rovescia.
Gli dico anche che British Airways cerca personale per sostituire quelli in sciopero per tre giorni da domattina.

I formulari da compilare quando ci si accinge ad entrare sul territorio degli Stati Uniti avrebbero fatto la loro bella figura nel regno delle due Sicilie.
Cominciamo con quello del ministero americano per la sicurezza.
Oltre alle generalità, telefono, e-mail, ecc ecc. vi si chiede, fra le altre cose:
– se avete malattie infettive, abilità fisica o mentale ridotta, o se vi drogate
– se avete mai fatto cinque anni di galera, se siete un trafficante e se contate fare i criminali durante il vostro soggiorno
– se siete spie, sabotatori o terroristi
– se per caso, dal 1931 al 1945 vi è capitato di dare una mano ai nazisti e alle loro persecuzioni
– se avete mai imbrogliato per ottenere un visto, e infine
– se avete mai fatto ricorso all’immunità giudiziaria (senza del resto precisare il contesto, né, incredibilmente, accennare alla possibilità di un lodo).
Firmando, accettate di non avere alcun diritto di reclamo o di appello. E tanti saluti.
Ora, nessuno contesta che un paese voglia lasciar fuori spie, nazisti e criminali. Mi chiedo solo a cosa serva chiederglielo, e cosa dichiarava Buscetta ogni volta che andava a trovare la “famiglia” a Nuova York…
w-L'invasione-delle-lumacheIl secondo formulario viene dal servizio per le Dogane e la Protezione delle Frontiere. Naturalmente si devono riscrivere le generalità, il telefono, la e-mail, ecc.
Poi segue una specie di check-list per verificare che non stiate facendo entrare nel paese prodotti o alimenti proibiti, come carni, frutta, verdura, sementi, ecc.
Quindi si vieta l’entrata di animali. E anche qua nulla da dire: per la protezione della salute e l’incolumità dei consumatori, questo ed altro.
Ma c’è una terzina, al punto 11 (c) del formulario, che agita i miei sonni: non si possono importare “agenti infettivi, colture cellulari e lumache”.
Lumache?
Ho controllato tutti i dizionari e non c’è verso: “snails” significa solo ed esclusivamente lumache (o chiocciole per essere precisi).
Ma qual è il nesso con gli altri due?
E se non sono animali, sotto quale voce li classifichiamo?
Forse sono UFO, Unidentified French Objects.