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[alert close=”no”]G 33 Navasota (Tx) – Shepherd (Tx) 123 km – G 34 Shepherd (Tx) – Sisbee (Tx) 94 km[/alert]

Due giornate di sole splendido, niente afa e vento per lo più favorevole. Così si spiega la fine apparente della crisi fisica degli ultimi giorni. E le salite dovrebbero essere ormai un ricordo, il che mi dà un sollievo esagerato e mi fa venire voglia di approfondire un argomento già sfiorato.

Accennavo ieri al fatto che nella zona da cui sono passato ad est di La Grange è insediata fin dall’800 una comunità di coloni di origine tedesca.

Leggendo e chiedendo qua e là, mi sono reso conto di quanto avessi sottovalutato questo fenomeno migratorio.

Infatti i primi coloni tedeschi arrivarono poco dopo il 1830, quando il Texas era ancora messicano. Il primo, tal Friedrich Ernst, scrisse una lettera ad un amico nella sua città natale, Oldenburg, che venne pubblicata dal giornale locale. La descrizione delle terre del Texas fu così bella da riuscire a convincere moltissimi ad emigrare e oggi Ernst viene riconosciuto come il padre dell’emigrazione tedesca in Texas. C’era di tutto fra i nuovi arrivati, ma soprattutto artigiani, agricoltori e allevatori.

Poi arrivò l’ondata di coloro che vennero chiamati “Quelli del ‘48”, che avevano partecipato ai vari movimenti di rivolta che avevano scosso un po’ tutta l’Europa in quell’anno, con richieste di governi più democratici e un primo abbozzo di rispetto dei diritti umani.

Delusi dal fallimento della rivolta, e spesso ricercati dalla polizia dell’Impero, molti intellettuali tedeschi, ma anche cechi e ungheresi, presero la via del Texas. Per far capire il tipo di personaggio, diciamo che l’equivalente italiano fu Giuseppe Mazzini, con il suo soggiorno a Londra.

Di un gruppo ben preciso di questi emigrati tedeschi avevo letto qualcosa casualmente, visitando alcune sere fa il centro storico di Comfort, ma solo oggi sono riuscito a fare il collegamento.

La placca commemorativa che ho fotografato ripercorre in breve la vicenda dei cosiddetti “Liberi Pensatori”, che fondarono la cittadina di Comfort, dove vissero per anni secondo i loro principi, che comprendevano l’assoluta non interferenza della chiesa negli affari di governo, l’eguaglianza sociale, razziale e sessuale, nonché l’abolizione della schiavitù.

E infatti, in base a questi principi, aderirono alla causa del Nord durante la Guerra Civile e ne pagarono duramente il prezzo per mano dell’esercito confederato.

Subito fuori città, a metà di uno strappo che mi ha fatto sudare l’anima, mi sono imbattuto la mattina dopo in una città tedesca fantasma, Grapetown. Dico fantasma perché l’unico edificio che rimane funziona oggi come centro polivalente. Ma una volta era il fiore all’occhiello proprio dei Liberi Pensatori di Comfort, che ne avevano fatto una scuola modello.

Per dare un’idea del numero di persone di cui stiamo parlando, segnalo che a fine ‘800 le tre grandi città texane di San Antonio, Houston e Galveston vantavano una popolazione per un terzo di origine tedesca.

Dai dati dell’ultimo censimento, nel Texas di oggi ben l’11% degli abitanti dichiara un’origine tedesca, al punto che si parla di “German-Texans” come gruppo etnico.

E, con mio grande stupore, sempre il censimento dà gli americani di origine tedesca come il gruppo etnico più numeroso degli Stati Uniti, con un’incredibile 17% dell’intera popolazione: senza dimenticare due famosi presidenti come Dwight Eisenhower (in origine Eisenhauer) e Herbert Hoover (in origine Huber).

Una cosa simpatica è che sono censite ancora circa 80.000 persone che parlano il tedesco del Texas, un dialetto a dir poco terrificante che risale al 19° secolo e che per di più ha assorbito parole americane o americanizzato parole tedesche.

Per l’affetto che porto alla professione e ai miei amici interpreti, auguro loro di non avere mai la sfortuna di dover tradurre un texano che parla tedesco!

E dire che sarebbe bastato guardare la cartina geografica e leggere i nomi delle città: Biegel, Frelsburg, New Ulm, Millheim, New Braunfels, Luckenbach, Gruene, Fredericksburg, Groesbeck, Boerne, Schulenburg, Weimar, Muenster, Berlin e tante altre.

L’unico neo di questa migrazione (e i miei amici tedeschi che leggono il blog mi perdoneranno) è che i coloni portarono con sé anche i libri di cucina.

Un’avvisaglia l’avevo avuta a Wickenburg, dove mi ero imbattuto in un ristorante “Berlin”, che mi aveva colpito perché aveva affisso un menù con due colonne, pranzo e cena: i piatti erano gli stessi, ma la sera costavano 3-4 dollari in più!

Inoltre, pur vantandosi di fare cucina “europea” (sic!), in realtà proponeva solamente schnitzel, cioè delle cotolette con tutta una serie di salse, fra cui una salsa texana e una salsa ranchero di improbabile origine imperiale. Per cui mi era venuto in mente il vecchio detto secondo il quale “nel paese dei ciechi, beato chi ha un occhio!”!

Scherzi a parte, concentrato com’ ero sui chilometri da fare, ho davvero rischiato di mancare il fenomeno importantissimo dell’emigrazione tedesca in America!

Tutti sappiamo che in Texas non si gioca a calcio. Peccato, perché, se si giocasse, immagino già la partita dell’Italia contro la “Texas Mannschaft”, composta da: Lehmann, Ullrich, Jaeger, Schoenberg, Waldeck, Hauptstrasse, Cooper (un oriundo), Ponfick, Wagner, Strunz e Wickel (sono tutti nomi di fattorie e strade di campagna attorno a La Grange!).

Per il posto di allenatore non ho dubbi. Sarebbe l’unico italiano che parla (si fa per dire) sia il tedesco che l’inglese: Giovanni Trapattoni.

Riguardate la sua intervista di quando allenava il Bayern di Monaco e ditemi se non ho ragione.

Was erlaube Strunz !?


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[alert close=”no”]G 32 La Grange (Tx) – Navasota (Tx) 118 km[/alert]

Ieri sera ero molto stanco, e di conseguenza anche un po’ giù. Per fortuna, mi sono ricordato dei consigli dietetici di un mio compianto concittadino, Michele Gordini, ciclista dell’epoca pionieristica a cavallo fra gli anni ‘20 e ‘30, che corse varie volte il giro d’Italia e il giro di Francia come “isolato”, cioè senza appartenere ad una squadra ufficiale, cuccandosi tappe dell’ordine dei 400 km al giorno.

E pensare che la sua bicicletta non aveva nemmeno il cambio, ma la ruota posteriore aveva due pignoni, da usare, ogni volta smontando e rimontando la ruota, a seconda del tipo di pendenza da affrontare!

Ebbene, nelle sue memorie Gordini consiglia ai genitori dei giovani aspiranti ciclisti di mangiare un numero esagerato di uova (poco care) alla mattina e carne (possibilmente una bella bistecca) almeno una volta a settimana, il che, considerati i tempi e i prezzi, non era poco.

Ora, io non sono giovane e non aspiro a fare il ciclista, per cui ho applicato alla ricetta di Gordini il famoso “coefficiente di Kit Carson”. Perciò, sia ieri sera che stasera mi sono sbafato una bella frittata e una fiorentina letteralmente coperta di patatine fritte e accompagnata da una (o tre?) birre gelate.

Lo so che i medici che leggono il blog adesso mi accuseranno di colesterolo con scasso e di trigliceridi armati, però, come si dice in questi casi, quando ci vuole ci vuole: e con la fatica che mi sembra di fare tutti i giorni, mi dico che potrei digerire anche il marmo.

Vedremo se le prossime analisi confermeranno la mia teoria.

90% non è la proverbiale percentuale di consenso alle elezioni bulgare. È, purtroppo, il tasso d’umidità con cui mi sono svegliato e che mi ha accompagnato per tutta la giornata: neanche nelle valli di Comacchio! È stato stranissimo uscire dal motel e trovarsi di fronte una pioggerellina fine, un’aria appiccicaticcia e una temperatura già elevata alle 7 di mattina.

È davvero incredibile il contrasto con l’aria secchissima che ho respirato praticamente dal giorno della partenza (a proposito, oggi si festeggia un mese!) nei deserti e sugli altipiani dei quattro stati attraversati finora. Comunque, meglio abituarsi in fretta, perché, andando verso est, proprio questo clima mi attende.

A parte il discorso meteorologico e il fatto che ho evitato la pioggia ancora una volta, l’aspetto della tappa di oggi che mi ha più colpito è stata la tranquilla bellezza del paesaggio, e soprattutto la varietà incredibile di piante e fiori selvatici che lo punteggiano.

Sarà che quest’anno è piovuto come non mai, sarà che ho preso le settimane della fioritura, sarà che non lo so, ma resta il fatto che il Texas orientale è un immenso, bellissimo, inaspettato territorio verde, un alternarsi continuo di pascoli, campi coltivati, prati di fiori, fiumi e alberi, se non proprio boschi.

Non è sicuramente un caso che questa sia la zona colonizzata in origine da tedeschi e ancor oggi abitata da loro discendenti, ma di questo vedrò di parlare un’altra volta.

Dicevo dei fiori. Lungo quasi tutto il percorso l’aria era profumata e ho scoperto che il fiore responsabile è una varietà di lupino, colorata di blu, il “lupinus texensis”, che è anche il fiore di stato.

Detto così può far sorridere, ma occorre sapere che ogni stato americano si sceglie i propri simboli. E così, ad esempio, in Texas esiste un animale di stato (l’armadillo), due mammiferi di stato (il pipistrello e la mucca Longhorn), un rettile, un insetto, un uccello, un albero, una pietra preziosa, un cane di stato, ecc. ecc.

A contorno dei lupini, tutta una serie di fiori di cui sinceramente non conosco il nome, tranne che di uno, il cosiddetto “pennello indiano”, un fiore rosso i cui petali sono dolci e, mi dicono, commestibili, mentre il resto della pianta è tossico.

Gli indiani lo usavano per farne una tintura per capelli, come ricostituente e per curare tutta una serie di malanni, dalle malattie veneree ai reumatismi.

Altri indiani di indole più artistica, invece, lo usavano per quello che indica il nome, cioè proprio come pennello per applicare colorazioni sulla pelle.

Ripensando a questo mese in bicicletta, mi dico che i due tipi di vegetazione che mi hanno impressionato di più sono appunto il tappeto “floreale” di oggi e la distesa di cactus in Arizona, soprattutto i cosiddetti “saguaro” che fanno tanto pensare, per chi si ricorda Carosello, alla pubblicità del caffè Paulista “Carmencita, chiudi il gas e vieni via”.

E pensare che sviluppano un ramo ogni cinquant’anni e hanno un impianto radicale ridotto, tanto che se provate a spingerli, cominciano ad oscillare. Si trapiantano facilmente, ma sempre mantenendo lo stesso orientamento, perché dalla parte esposta al sole la scorza è più spessa. Sono anche pieni di buchi perfettamente circolari e il responsabile è il picchio dei cactus, che ci fa anche il nido e che un giorno sono riuscito ad immortalare con mia grande gioia.

E il picchio, assieme al pipistrello “di stato” assicura anche l’impollinazione!

Il Texas è un fervente sostenitore dei cactus in generale, tanto da aver creato un apposito organismo (Texas Cactus Council) che ne promuove la coltura e l’uso nei settori più disparati, dall’alimentazione umana a quella animale, dalla cosmesi all’arredo urbano. Insomma, sono piante da difendere e da rispettare. E non si deve fare come quel gruppo di studenti in gita (sicuramente italiani), che si è divertito a deturpare qualche cactus per scopi goliardici, ad esempio affiggendo messaggi personali, come quello riportato nella foto accanto. (*)

Ancora peggio: ho visto che su un saguaro pluricentenario mani ignote avevano inciso, rovinandolo, una litania benaugurante che milioni di italiani recitano dal 1965 ogni mercoledì di coppa.

 

C’era scritto: Sarti, Burgnich, Facchetti…

 

(*) Questa la dovevo proprio, come ringraziamento, a Marco Zatterin, corrispondente da Bruxelles de “La Stampa” e autore di un blog che racconta i retroscena della costruzione europea (www.lastampa.it/zatterin). E sappiate che se potete leggere il mio delirio americano la colpa è tutta sua!

Ps: domani sveglia ritardata e tappa lunga, per cui il blog salta una giornata.

A dopodomani!


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[alert close=”no”]G 31 Austin (Tx) – La Grange (Tx) 101 km[/alert]

Diciamo che non è stata proprio una giornata di crisi, ma ci siamo andati vicino, e forse era anche da mettere in conto che prima o poi la fatica accumulata si sarebbe fatta sentire.

Solo che finora avevo fatto finta che la fatica non ci fosse e lei era stata al gioco.

In verità, oggi la tappa non era troppo difficile, a parte i soliti saliscendi di quello che qui chiamano the hill country, il paese delle colline, che mi perseguitano da qualche giorno, ma che per fortuna dovrebbero volgere al termine ben presto.

Purtroppo è il tempo che ci ha messo lo zampino ancora una volta: cielo grigio tutto il giorno, qualche accenno di pioggia, ma soprattutto vento da sud-est, che significa vento laterale o contrario per 100 chilometri su 101. Ed è un vento contrario che i ciclisti definiscono “ignorante”, perché non ti molla mai e alla fine ti sfianca i muscoli e, quel che è peggio, il morale. Hai voglia a riempirti di bevande isotoniche, barrette energetiche e noccioline assortite, ma alla fine della giornata sei cotto. O perlomeno, io ero cotto.

Ragion per cui, scrivo questo post, vado a mangiare un piatto di rigatoni all’amatriciana (sì, col piffero!) e vado a letto per recuperare.

 

Domani è un altro giorno, ma le previsioni danno di nuovo brutto, ed è inevitabile pensare alla eccezionalità del tempo: il Texas non hai mai, ripeto mai, visto tanta pioggia. Ieri ci sono state tempeste, grandine e tornado nel nord dello stato e in Oklahoma.

C’è una perturbazione che, neanche a farlo apposta, mi segue da quando sono entrato in Texas: mi sento molto Fantozzi con la sua nuvola da impiegato!

E a chi mi chiede notizie personali su dieta e altro, dico che a pranzo mi sono fermato da McDonald (ebbene sì), che era l’unica possibilità esistente in quel momento e che perlomeno serve una “insalata del Sudovest”, con pezzi di pollo grigliato, che è la cosa meno peggio sul menù. Stamattina, dato che il motel non offriva la possibilità di fare colazione (come spesso accade), mi sono fermato in un locale di Austin per un ottimo cappuccino, pane e marmellata.

Questo per dire l’imprevidibilità a cui bisogna far fronte sul piano alimentare. Cioè, per essere sicuri di mangiare quello che si vuole, occorrerebbe fare la spesa la sera prima e portarsela dietro.

Ma la sera prima si arriva magari a Uvalde, dove il negozio/ristorante più sfizioso che c’è è il frigorifero del benzinaio con i suoi panini di baloney (vedi G12) e formaggio ricostituito, che ti viene la gastrite solo a vederli.

Basta, mi sono sfogato e voglio parlare di cose belle, per cui torno indietro col pensiero a Austin, città piena di vita e di bella gente.

Ma dove va un qualunque ciclista di passaggio ad Austin per far regolare il cambio?

Va da Lance Armstrong, che abita proprio qui.

O meglio, diciamo che va nel negozio che ha aperto un paio d’anni fa e che è diventato la mecca dei ciclisti della zona, e non solo.

Chad, il meccanico che mi ha sistemato la bici dopo lo scempio di Del Rio, ha lavorato in Italia, più precisamente ad Arezzo, e ha speso parole molto belle per il nostro paese. Mi ha fatto visitare il negozio di Lance (tutti lo chiamano così), il centro per allenamenti e test e la collezione di maglie e biciclette con cui ha vinto i sette giri di Francia.

Lance viene spesso nel negozio, peccato non ci fosse ieri: gli avrei chiesto anche di darmi una regolatina alla sella, visto che il mio guru e allenatore a distanza, Rino, dice che la punta è troppo alta e mi sarebbe piaciuto avere il parere anche di un secondo esperto .

Scherzi a parte, il negozio è caro quanto basta, ma molto ben fornito. Ovviamente si sfrutta il marchio alla grande, ma spicca anche una serie di bici Pinarello e Cinelli in carbonio, queste ultime con lo scatto fisso, che, per qualche strano motivo che non ho ancora capito, sembra essere la scelta privilegiata di tanti: un solo pignone dietro e via andare.

Se penso che la mia bici ha la tripla davanti e nove pignoni dietro…

Ma dicevo di Austin, città piena di bella gente.

Ne ho avuto la riprova a due riprese: la prima è stata quando, appena arrivato e trovatomi a prendere finalmente un buon caffè col mio ormai amico canadese, Karman, che fa la stessa strada, siamo stati avvicinati da una signora molto simpatica che, accertato che facevamo la traversata e che io ero italiano, ci ha invitato seduta stante a cena.

Il motivo? Suo marito vorrebbe fare lo stesso tragitto, ma intanto a fine settembre andranno per due settimane in Italia, dove hanno affittato una villa a Castellina in Chianti e un’altra sul Canal Grande. Così si fa!

Ci siamo quindi ritrovati a mangiare con Angela e Bryce nel ristorante messicano più alla moda di Austin e devo dire che è stata una serata molto piacevole: ho persino mangiato benino.

La seconda serata, invece, l’ho dedicata alla movida, grazie ad Alberto, un giovane ricercatore piemontese attualmente a Austin e lettore del blog, con cui avevamo convenuto di bere un paio di birre in occasione del mio passaggio in città. Devo dire che invidio molto Alberto: non solo perché, essendo giovane, ha ancora tutti i capelli, ma perché ha avuto la possibilità di passare due mesi in questa città.

Ieri sera abbiamo scelto a caso uno fra le decine di bar che si aprono sulla sesta strada e che offrono musica dal vivo. Francamente, non avevo mai visto un’offerta tale, il che rende giustizia alla fama di capitale della musica dal vivo che Austin non cessa di vantare.

In due soli mesi Alberto è entrato nel cuore di questa città, o forse è questa città che è entrata nel suo cuore, a giudicare dalle descrizioni ammirate che mi ha fatto delle mille e una occasioni di incontro, della socialità così naturale, senza per questo essere invadente, e delle bellezze naturali e architettoniche che ha documentato in dettaglio grazie alla sua grande passione per la fotografia. Fotografia artistica, vorrei aggiungere, e non fotografia da ingegnere, quale pure è Alberto, a cui auguro un brillante futuro, in università o in azienda, pari almeno alla simpatia e alla disponibilità mostrate verso di me.

Nota bene: preciso subito, all’attenzione del mio allenatore e della fidanzata di Alberto, che abbiamo bevuto birra senza alcool tutta la sera, e che quindi la mia crisi di oggi non era dovuta a questa uscitina fra le nove e le dieci.

Bene, se avete creduto questa, posso continuare per chissà quanto .

 

La fine però la riservo ancora a Lance.

Mi raccomando, da ora in avanti quando parlate di lui dovete usare solo il suo nome di battesimo, primo perché in Texas fanno tutti così, e secondo perché, ad essere pignoli, il suo vero cognome sarebbe Gunderson, che non fa molto chic.

Indipendentemente dalla simpatia che si può avere nei suoi confronti e da ciò che si pensa su come ha ottenuto i suoi risultati, ho deciso di assegnargli un titolo onorifico molto raro, per non dire unico: quello di interprete spiritoso. Perché?

Perché ha chiamato il suo negozio Mellow Johnny (che può voler dire Johnny il dolce, il tranquillo, il rilassato, ma anche il “fatto” di marijuana).

Ma pochi sanno da dove venga veramente questo nome!

Ebbene, trattasi dell’americanizzazione spudorata della cosa più ambita per Lance: la maglia gialla del Tour, le maillot jaune, il Mellow Johnny, appunto!

 

Ho avuto un brivido lungo la schiena pensando che se, invece del Tour de France, avesse vinto sette volte il Giro d’Italia, il negozio l’avrebbe chiamato Amalia Rosy.

[alert close=”no”]G 29-30 Austin (Tx) – Due giorni di riposo[/alert]

È buffo, mentre mi trovo a Austin, capitale del Texas, pensare che se il generale Santa Anna non fosse stato un cretino, borioso e incapace, oggi forse questo enorme territorio sarebbe solo una provincia del Messico. Ed è anche istruttivo ripensare a come andarono le cose.

Ottenuta l’indipendenza dalla Spagna, il Messico si ritrovò con questo immenso territorio quasi spopolato e soggetto alle razzie degli indiani. Decise quindi di incoraggiare l’immigrazione di coloni “americani”, in gran parte anglosassoni, precisamente allo scopo di far prosperare la provincia del Texas, e concesse ad ognuno di loro (300 famiglie) un centanio di ettari di terreno agricolo e pascolo. Unica condizione, essere cattolici e non commerciare in schiavi, anche se si poteva continuare a “usare” quelli già in proprio possesso. Ma l’illegalità diffusa e il rischio percepito di perdere il controllo linguistico, prima ancora che amministrativo, spinsero il Messico a vietare l’immigrazione nel 1828.

Risultato: continuarono ad affluire illegalmente sempre più coloni, ma anche banditi e migliaia di persone prive di scrupoli, attirate dal miraggio dell’arricchimento facile, grazie alle ricchezze immense del territorio e alla precarietà delle regole.

Per farla breve, dopo un primo tentativo di rivolta indipendentista che proclamò la repubblica di Fredonia, una rivoluzione vera e propria portò alla dichiarazione d’indipendenza del Texas nel 1836.

E il grande generale Santa Anna si fece sorprendere dalle truppe di Houston, che fingeva di ritirarsi e invece lo attaccò subito dopo pranzo quando, incredibile ma vero, l’esercito messicano si concesse una piccola ma fatale siesta; il generale fu catturato mentre fuggiva travestito da soldato semplice (questa mi ricorda qualcun altro).

Fu un’epopea in piena regola, che ha lasciato tracce evidenti nella toponomastica, ma anche nel carattere dei texani, così fieri di sentirsi unici, indipendenti e ferocemente legati al territorio e al proprio passato. Non c’è strada, paese, giornale, istituto o organizzazione che non si rifaccia in un modo o in un altro al fatto generatore del paese. La capitale è intitolata agli Austin, padre e figlio, che guidarono i primi coloni. La Mini Austin venne molto dopo.

Houston era il capo delle forze armate e mi fa sorridere pensare che era entrato nel territorio illegalmente!

Davy Crockett, che io pensavo fosse solo un fumetto, è stato di tutto: eroe, politico e colonnello delle forze texane (187 uomini) che si sacrificarono nel fortino della missione e fecero fuori oltre un migliaio di soldati messicani, prima di soccombere al grido di “O Vittoria, o morte!”: la mitizzata battaglia di Alamo.

Non so quando sia arrivata in Texas la famiglia di George W. Bush (e con Benigni ho sempre pensato che se quella sera Bush padre fosse andato al cinema, sarebbe stato meglio per tutti), ma so che quella di Lyndon Johnson, il presidente che succedette a Kennedy, discendeva da proprietari terrieri e allevatori insediati in quella che oggi si chiama Johnson City, e da cui sono passato ieri l’altro. Furono tra i primi a mandare il bestiame verso la costa orientale, lungo le piste frequentate dagli indiani e successivamente con i carri bestiame della Southern Pacific.

Ma la Austin di oggi, incredibilmente, sembra l’esatto contrario del mito texano propalato a piene mani, tanto da aver coniato il motto di Keep Austin weird (Manteniamo Austin strana).

Ma perché strana? Oggi l’ho girata da un capo all’altro in bicicletta per andare a ritirare due pacchi all’ufficio postale, che pur chiamandosi centrale si trova nella periferia nord. Sono rimasto veramente colpito da questa città, che fin dal primo impatto mi ha fatto ripensare a San Diego.

Stessa atmosfera rilassata fra la gente, un gran fiorire di bandane, orecchini e tatuaggi che sembrano tutti Sandokan. E poi case colorate, piccoli negozi pieni di cose insolite, baretti che fanno buon caffè, posticini sfiziosi che vendono vino al bicchiere, locali in cui si suona musica dal vivo, un’università prestigiosa.

Addirittura, un trasposto pubblico che non so se funzioni, ma già il fatto che ci sia è una notizia da prima pagina; e stasera voglio provare l’emozione di prendere l’autobus. E ancora, per la prima volta dall’inizio del viaggio, un numero importante di piste ciclabili con tanta gente (relativamente a questo paese, s’intende) che gironzola in bici.

In poche parole, la “stranezza” di Austin sta tutta nel fatto che agli occhi di un europeo sembra una città perfettamente normale e non uno di quei grumi insensati di hamburger, pistole e automobili che ho attraversato in abbondanza fino ad oggi.

Austin è in testa, o quasi, a tutte le classifiche per quella che noi definiremmo “qualità della vita”: seconda come “miglior città in cui vivere”, città più verde e quinta città più sicura degli Stati Uniti, capitale della musica dal vivo e strenua oppositrice delle grandi multinazionali del cibo e del commercio, a tutela dei piccoli negozi.

Austin va fiera del suo essere controcorrente e ha ampia fama di essere “liberal”, che in italiano potremmo tradurre con “progressista”. È insomma un’isola felice e all’apparenza spensierata in uno stato che, come dicevo, più conservatore non si può, tanto che gli altri texani, con una punta di sarcasmo misto a invidia, la definiscono “la Repubblica Popolare di Austin”, riuscendo a malapena a evitare la definizione di “socialista”, o “radicale” che viene regolarmente appioppata a tutto ciò che esula dalle regole e soprattutto dal conformismo (Obama in testa).

Il succitato Davy Crockett, per sottolineare il suo impegno indipendentista, coniò un motto: You may all go to hell, and I will go to Texas, ossia “potete andare tutti all’inferno, ma io andrò in Texas”.

Non so che fine abbia fatto il buon Crockett e spero per lui che sia andato in paradiso, visto che ci credeva.

Ma giudicando da quello che ho visto finora, io adatterei leggermente il suo motto e, rivolgendomi ai texani direi:

You may all go to hell, and I will stay in Austin.


View G 27 Hondo (Tx) to Comfort (Tx) in a larger map
[alert close=”no”]G 27 Hondo (Tx) – Comfort (Tx) 93 km
G 28 Comfort (Tx) – Austin (Tx) 147 km[/alert]

Ho riunito queste due tappe per vari motivi: primo, perché ero in ritardo con il blog e, secondo, perché le località che ho attraversato in questi due giorni sono l’esemplificazione perfetta di quanto l’America, o almeno questa parte dell’America, possa essere brutta.

Su quanto possa essere bella mi sono già dilungato parlando di San Diego e ci tornerò parlando di Comfort, Bandera, Austin e mille altri posti.

E pensare che in due giorni sono sceso dagli oltre mille metri dell’altipiano fino ai tre-quattrocento attuali e il paesaggio, da semi-arido che era, si è trasformato in una meravigliosa prateria punteggiata di alberi di mesquite e inframezzata da campi coltivati di terra fertilissima.

Le sfumature di verde che si vedono non fanno pensare al Texas, dove pure mi trovo, ma piuttosto all’Irlanda, o all’Umbria.

E poi fiori, tantissimi fiori selvatici gialli, rossi, blu, che abbelliscono i lati della strada e rendono la pedalata molto meno solitaria.

Sembra strano, ma la primavera, e questa primavera bagnata in particolare, fa proprio questo effetto.

Ma prendiamo il punto di partenza, Hondo. Come cittadina non è solo brutta, fa proprio schifo.

E Uvalde, una cinquantina di chilometri prima, che deve il suo nome a quello (storpiato) del generale spagnolo Juan de Ugalde, non merita nemmeno il titolo di questo post che l’accosta a un filmetto di serie B degli anni settanta, che perlomeno aveva un titolo indimenticabile.

Magari sarò criticato per quello che dico, ma io la vedo veramente così.

Per far capire a chi non è mai stato in zona come è fatto uno di questi paesi, immaginiamo che la terra su cui costruiamo sia fatta di materia elastica: per i bambini può essere il Pongo; per gli altri, pensate alla sfoglia tirata a mano che serve per fare i cappelletti.

Ora, costruiamo su questa superficie elastica (l’ordine non importa) i seguenti edifici: un motel, cinque locali che vendono hamburger, un altro motel, diciotto bugigattoli o taverne che fanno cibo messicano, una banca, una stazione di servizio che vende birra, caffè, panini e fa anche da lavanderia, un’altra stazione di servizio che ha il bancomat e vende pizze congelate, tre uffici di società che promettono prestiti facili, l’ufficio postale, un supermercato Walmart, due botteghe da fabbro, un’officina auto e, in fondo al viale, un ultimo motel. Tutt’attorno si aggiungano strade non asfaltate o piene di buche, auto arrugginite, case col tetto di lamiera, camper abitati e terreni pieni di erbacce.

L’operazione più importante viene adesso: prendiamo la base su cui si è costruito e la tiriamo finché non arriva al limite di rottura. Otterremo così il paesello tipico, allungato per diversi chilometri attorno a quell’unica arteria centrale che convoglia la linfa vitale, fatta di commerci e traffico di passaggio.

Il fatto che il paese abbia mille o diecimila abitanti è assolutamente irrilevante, perché non si vedono: sono in giro in macchina. Non conta la demografia o l’architettura, ma solo la lunghezza della strada principale.

Nel caso di Uvalde, c’è l’aggravante del negozio che vende la combinazione perfetta: alcolici e armi. Ho già parlato della estrema facilità con cui l’uomo della strada può procurarsi un’arma e della spregiudicatezza con cui vari sceriffi, soprattutto nelle zone di confine, invitano i cittadini ad armarsi.

Quello che ho visto più da vicino questa volta è il “taser”, in libera vendita a 299$ + tassa locale dell’ 1% (quella che dovrebbe servire a pagare i servizi). Il taser è un dispositivo classificato come arma da difesa “meno che letale”, e fa uso dell’elettricità per far contrarre i muscoli del soggetto colpito.

Quando viene azionato, il taser proietta a una distanza variabile (da 5 a 10 metri) due piccoli dardi che sono collegati tramite dei fili elettrici al resto del dispositivo, il quale produce una scarica ad alta tensione e basso amperaggio, che viene rilasciata in brevissimi impulsi.

Quando dico alta tensione, dico, secondo gli armaioli del negozio, 80.000 volt!

I dardi degli ultimi modelli sono come dei rasoi molto affilati e riescono a penetrare tranquillamente vestiti, giubbotti ed eventuali protezioni. Il soggetto colpito perde il controllo dei propri muscoli per un periodo sufficiente a fargli passare ogni cattiva intenzione. Questa la teoria.

Però Amnesty International e l’associazione americana per le libertà civili dicono che dal 2001 almeno 350 persone sono morte in seguito a tale “trattamento” e paesi come il Canada hanno vietato l’uso di questi dispositivi in seguito ad alcuni decessi difficilmente giustificabili altrimenti.

La società che produce i Taser difende il suo prodotto con un ragionamento esemplare, che consiste a dire che se uno muore quando è colpito la colpa è sua, perché l’organismo era debilitato.

Quindi, prima di andare a litigare con la polizia del Texas consiglio: sei mesi di palestra, 5.000 km di bicicletta e 50 vasche in piscina tre volte a settimana. Se si corrono i 100 metri in meno di 10 secondi è ancora meglio, ma a quel punto è meglio lasciar perdere il litigio e andare direttamente alle Olimpiadi. Niente alcool o droghe. Sul sesso come agente debilitante le opinioni divergono, fate vobis.

Il problema vero, però, anche lasciando da parte l’uso più o meno giustificato che la polizia può fare di questa arma, sta nel fatto che è in libera vendita al pubblico. Il sottoscritto, che è tutto fuorché un cittadino americano, avrebbe potuto comperare questa sedia elettrica portatile con 300 dollari e l’unica formalità di un controllo via computer fatto dal negozio. Non avendo mai assassinato nessuno (almeno negli Stati Uniti), il tempo previsto per il controllo è inferiore a due minuti.

Lascio solo immaginare la facilità con cui un malintenzionato può servirsi di un aggeggio del genere per effettuare una rapina a mano armata.

E in caso di eventuale processo potrà sempre sostenere di aver usato un’arma ufficialmente “meno che letale”.

E se il tabaccaio (o il benzinaio) vittima della rapina è morto?

Peccato, ma è colpa sua.

Doveva allenarsi di più!


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[alert close=”no”]G 26 Brackettville (Tx) – Hondo (Tx) 132 km[/alert]

Causa maltempo, ho dovuto cambiare itinerario, dato che la strada prevista dalla mia cartina era chiusa perché inondata. Questo mi ha dato modo di viaggiare su strade un po’ più trafficate e soprattutto di scoprire un altro paio di paesi della serie: “anche se non ci passavo stavo bene lo stesso”. Appena posso vedo di approfondire.

Ma dicevo ieri della storia delle truppe cammellate, che ho imparatro gironzolando per il museo di Fort Clark e che penso valga la pena di raccontare.

Per alcuni anni, prima della guerra civile americana, l’esercito sperimentò l’uso dei cammelli per cercare un’alternativa a muli e cavalli nel clima infuocato del Sud Ovest. Fu un sottufficiale che probabilmente aveva le letto le Mille e una notte a convincere i suoi superiori del vantaggio di questi animali che portavano carichi incredibili, erano abituati al caldo del deserto, potevano stare senza bere per giorni e non dovevano nemmeno essere ferrati. Ci vollero comunque anni, prima che l’idea si facesse strada nel mondo della politica, e persino dopo l’accordo del Ministro per la Guerra ci vollero anni per superare l’ostilità degli ambienti militari e di buona parte della stampa. Finalmente, nel 1855 fu stanziato un bilancio e una spedizione partì per nave, con destinazione la Tunisia, allo scopo di comperare cammelli. Comperarono il primo cammello che fu loro offerto e scoprirono che era di salute cagionevole. Non fosse stato un cammello l’avremmo chiamato una bufala. In realtà c’era la guerra di Crimea e gli animali validi erano tutti impegnati su quel fronte. I nostri eroi non si persero d’animo e fecero il giro di Malta, Grecia e Turchia (un po’ di turismo fa sempre bene) prima di approdare in Egitto, dove però l’esportazione di cammelli era proibita e fu necessaria un’intensa trattativa (con consistenti dazioni) per poter ripartire con la bellezza di 33 cammelli e cinque cammellieri/istruttori.

Punto importante: i cammelli erano tutti in buona salute e soprattutto garantiti a prova di frode, dato che nel suq vigeva la malsana consuetudine di gonfiare loro la gobba artificialmente per farli sembrare più belli. Un po’ come quelli che siringano i cocomeri per farli pesare di più. A quasi un anno dalla partenza da New York, la nave cammelliera tornò in patria col prezioso carico, che era nel frattempo aumentato di un’unità. Nessuno volle riconoscere la paternità del neonato cammellino, e il test del dna era di là da venire.

Gli animali vennero inviati a Fort Verde, a ovest di san Antonio, proprio dove sono passato io in bicicletta in questi giorni, e le loro qualità furono mostrate a soldati e civili curiosi, ad esempio caricando 4 o 5 quintali sulla schiena delle povere bestie.

L’anno dopo, i cammelli vennero impiegati per un’esplorazione della zona fra El Paso e il fiume Colorado e se la cavarono molto meglio di muli e cavalli. Addirittura quando la spedizione si perse nel deserto, furono i cammelli a trovare una sorgente d’acqua con il loro fiuto unico e a salvare così tutti quanti. Ma la storia non andò a buon fine. Il nuovo comandante militare del Texas, pur non avendo mai visto all’opera i cammelli, non li considerava degni di servire nell’esercito e preferì continuare con animali più nobili. Prese a pretesto le proteste di alcuni soldati che si lamentavano del cattivo carattere dei cammelli e del fatto che questi sputavano addosso e scalciavano la gente, con una netta preferenza per quelli che li trattavano male.

Poi si diceva che puzzavano e che spaventavano gli altri animali domestici. Insomma, gira e volta i cammelli vennero usati sempre meno, la guerra civile li vide inoperosi e fra il 1863 e il 1865 vennero tutti messi all’asta e venduti a zoo, circhi, miniere e privati. Altri rimasero al governo che, non sapendo cosa farsene, li lasciò liberi nel deserto. E qui comincia il bello.

Gli ultimi avvistamenti ufficiali di cammelli in libertà nel deserto risalgono a inizio ’900, ma c’è chi giura che ce ne sarebbero ancor oggi alcuni vivi in aree remote. Da subito dopo la loro liberazione, comunque, cominciarono a fiorire i racconti (e qualche leggenda). Il più bello è quello del Fantasma Rosso. Una donna venne trovata morta, calpestata da un grosso animale che lasciò grandi impronte di zoccoli nel terreno e ciuffi di pelo rosso nei rovi. Due minatori che dormivano videro la loro tenda distrutta da un bestione sconosciuto che lasciò pure impronte e pelo rosso come ricordo. Insomma si concluse che si trattava di un cammello, veterano dell’esercito.

Un agricoltore lo avvistò e dichiarò che sembrava portare una persona. Alcuni tecnici che facevano prospezioni minerarie videro pure il cammello col conduttore e qualcosa che rotolava a terra: era un teschio! Con questa testimonianza, la leggenda del Fantasma Rosso e del suo fantino decollato era nata e continuò per decenni a seminare il terrore nei ranch e nei villaggi del West. Finì solo nel 1893, quando l’ormai mitico cammello venne catturato da un rancher dell’Arizona mentre brucava tranquillo sui suoi pascoli. Non portava nessuno in groppa, solo delle cinghie di cuoio a cui era stato attaccato qualcosa o, appunto, qualcuno.

Chi? Quando? Perché? Qui sì che ci vorrebbe Lucarelli (quello che abita a Mordano, non quello che gioca nel Livorno).

Nessuno trovò mai risposta a questi interrogativi, neanche l’agenzia investigativa Pinkerton. Ma c’è da dire anche che nessuno si rivolse a Tex per risolvere il mistero.

E i cammellieri, in tutto questo? Si sa poco di loro, tranne che di uno, Hadji Ali, che gli americani prontamente ribattezzarono “Hi Jolly”, vista la totale incapacità di pronunciarne il nome. Hi Jolly rimase negli Stati Uniti, mise in piedi una ditta di trasporti via cammello, ma fece fallimento e liberò personalmente il suo ultimo cammello nel deserto del Gila. Quando morì nella cittadina di Quartzsite (vedi G-5), oggi famosa per il commercio di pietre e fossili e da cui sono passato il quinto giorno di viaggio, l’America, riconoscente, gli dedicò un mausoleo senz’altro all’altezza, tanto che sarebbe più giusto definirlo faraonico. Gli fece costruire, infatti, una piramide.

Con pragmatismo sbrigativo, la lapide parla di “Hi Jolly, nato da qualche parte in Siria nel 1828 circa”, ma almeno gli riconosce 30 anni di fedele servizio. Sempre meglio che una tomba al milite ignoto.

Viva dunque Hi Jolly, discendente di Tutankamon per parte di cammello e neo-faraone d’America!

 


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[alert close=”no”]G 25 Seminole Canyon (Tx) – Brackettville (Tx) 96 km[/alert]

Seminole Canyon è il nome di un affluente del Rio Grande e allo stesso tempo di un parco nazionale famoso e assai frequentato, in quanto contiene una settantina di siti archeologici che risalgono fino al 7000 a.C.

Vi si trovano caverne e rifugi una volta abitati, resti di focolari, cerchi di pietra, sepolture e vari esempi di arte murale preistorica. Il paesaggio è affascinante.

Il nome è stato dato in onore di un gruppo ben preciso di un centinaio di scout Seminoles che durante le guerre indiane di fine ‘800 servirono nell’esercito americano e che riunivano due minoranze in una volta sola: infatti erano di discendenza mista indiana e nera, tanto da essere conosciuti come i Seminoles neri. L’origine sta nella fuga di alcuni schiavi neri dalle loro piantagioni; costoro trovarono rifugio nelle paludi della Florida dove abitavano appunto le tribù Seminoles, ed evidentemente i due gruppi trovarono diversi punti di contatto.

Sotto la guida di John Caballo, o John Horse, i Seminoles neri si spostarono in Messico attorno al 1850 proprio per sfuggire ai cacciatori di schiavi e servirono sotto la bandiera dell’esercito messicano, tanto che John diventò addirittura colonnello. Tornarono venti anni dopo in Texas, quando l’esercito poté offrire loro, oltre al salario, anche un abbozzo di dignità. Furono scout eccellenti, dato che parlavano sia inglese che messicano e conoscevano usi e costumi degli indiani della zona.

Ci troviamo anche nella zona del cosiddetto parco del “Big bend”, la grande curva, uno dei più grandi e isolati degli Stati Uniti. Venne chiamato così perché sembra letteralmente riempire una grande insenatura naturale del Rio Grande, laddove il fiume incontra le Montagne Rocciose e cambia improvvisamente di direzione.

Una delle caratteristiche principali del parco è la sua immensità, con oltre 300.000 ettari che coprono quasi tutta la strada che ho percorso negli ultimi giorni, da Alpine in qua.

I Comanches, che da queste parti erano di casa, hanno le idee ben chiare su come venne creato questo paesaggio insolitamente desolato. Narra la leggenda che il Grande Spirito, dopo aver finito di fare la terra e avere appeso le stelle in cielo e sistemato pesci e uccelli negli ambienti rispettivi, si ritrovò con una gran quantità di macerie per così dire da “smaltire”.

Decise allora di creare la prima discarica a cielo aperto della storia e vi gettò tutto quel materiale di scarto. I Comanches non sanno che l’esempio del Grande Spirito viene seguito al giorno d’oggi da tante persone anche in Italia, ma questa è un’altra storia.

E a proposito di spiriti, grandi e piccini, occorre ricordare che anche la catena dei Monti Chisos viene considerata il rifugio di molti fantasmi, primo fra tutti quello di un capo Apache tradito e giustiziato dai messicani, che si dice stia ancora vagando nei suoi antichi territori di caccia.

Poi ci sono le cosiddette “luci di Marfa”, dal nome di un villaggio che ho sfiorato passando da Fort Davis.

Gli avvistamenti ripetuti di fiammelle notturne misteriose fanno pensare a un fenomeno simile a quello della combustione spontanea di gas che si riscontra, fra l’altro, nelle zone paludose. Il problema è che qui del gas non ce n’è e se questa è una palude, come si dice dalle mie parti, io mi chiamo Cacao.

Insomma, c’è tutta una serie di fenomeni strani e di favole a cui io ovviamente non credo, poiché credere alle superstizioni è assurdo. Però, non crederci può portare sfiga, quindi, per non sapere né leggere né scrivere, dormo in motel ogni volta che posso.

Attraversata indenne questa zona così evocativa, si giunge nella ridente cittadina di Del Rio, che sarà anche una città, ma è tutto fuorché ridente. Sembra la fotocopia in brutto di El Paso. Anche qui c’è una città gemella aldilà del confine messicano, anche qui il 90% della gente parla spagnolo, ma si respira un’ariaccia brutta.

Difficile spiegare una sensazione, ma c’è una scortesia nei modi, un’arroganza nei comportamenti spiccioli, una spavalderia da bulli di provincia che fa venire spontanea la voglia di andarsene. E infatti è proprio quello che ho fatto, dopo alcune riparazioni dal meccanico. Prego notare che non ci sarà più un negozio di bici per i prossimi 5-600 chilometri, quindi ho dovuto accontentarmi di quello che passava il convento.

E il convento passava un negozio molto speciale, composto di due locali comunicanti. Nel primo lavora un giovane volonteroso che bazzica con le bici da tre mesi e ogni volta che parla depone l’attrezzo con cui stra lavorando, per cui una regolatina al cambio prende sulle due ore.

Nel secondo c’è una bella esposizione di piastrelle in ceramica e marmi. Quando si dice la complementarietà delle attività! Comunque, sono ripartito con una piastrella nello stomaco dal nervoso per il tempo perduto e ho potuto godere delle meravigliose strade di Del Rio che, grazie alla pioggia torrenziale del giorno prima, si mostravano in tutto il loro splendore: pozzanghere a non finire, buche da tutte le parti e marciapiedi zero. E chi se ne frega se le strade sono in uno stato pietoso e non ci sono i soldi per ripararle? Nessuno, a giudicare dalla risposta impeccabile dell’uomo della strada da me interrogato con una punta di sarcasmo:

“Tanto io ho il pick-up 4×4”. Ah beh, allora…!

Forse l’unica nota piacevole è una cantina, la Val Verde Winery, che mi sta simpatica perché è la più vecchia di tutto il Texas, organizza degustazioni della propria produzione e soprattutto venne fondata da un immigrato italiano, tal Frank Qualia, i cui discendenti gestiscono ancora l’attività. Con tutta la simpatia per questa famiglia di connazionali, però, non me la sono sentita di provare il vino texano.

Dopo è stata una lunga pedalata fino a Brackettville, che si è rivelata essere una cittadina finalmente un po’ carina, dove perlomeno tante case sono state (ri)costruite con la stessa pietra locale intagliata e cercando di mantenere uno stile un po’ retro (western ovviamente), ma alquanto piacevole. Non è un caso che proprio qui sia stato girato il film “The Alamo”, con John Wayne, e il villaggio è ancora oggi meta di pellegrinaggio da parte dei cinefili a caccia di souvenir.

In realtà, chi dice Brackettville dice Fort Clark. Come indica il nome, trattasi di una ex base dell’esercito che ha funzionato come tale dal 1852 fino a subito dopo la seconda guerra mondiale. Ed è proprio qui che vennero reclutati i Seminoles neri, gli scout di cui parlo all’inizio di questo post e che non devono essere confusi con i Buffalo soldiers di qualche giorno fa.

Da qui passarono in quegli anni anche (dico sul serio!) le truppe cammellate americane, quando, proprio per far fronte all’aridità terribile del Texas occidentale, venne fatto il tentativo di usare i cammelli come animali da trasporto viveri e truppe. La storia è simpatica, vedrò di raccontarla domani.

Oggi l’ex forte è diventato una cosiddetta “gated community”, ossia una comunità chiusa letteralmente dietro un’ampia recinzione e protetta da un servizio d’ordine all’entrata. Di militare rimangono i nomi delle strade intitolate a generali e comandanti vari, la casa che fu del generale Patton e gli abitanti, quasi tutti ex appartenenti alle forze armate.

Di civile (nel senso di non militare ), c’è un motel e un campeggio attrezzato.

Stasera piove e fa freddo: per uscire ci vorrebbero Montgomery e Wellington.

Nel senso di cappotto e stivali!


View G 24 Sanderson (TX) – Seminole Canyon (TX in a larger map
[alert close=”no”]G 24 Sanderson – Seminole Canyon 130 km[/alert]

Il Texas aspettava solo me per conoscere la peggiore ondata di maltempo della sua storia. Stamattina, a seconda delle località, sono caduti dai 6 ai 20 cm. di pioggia, in certi casi si è raggiunta la metà delle precipitazioni annuali! Terreno saturo, fiumi straripati, strade chiuse.

La partenza da Sanderson è stata rinviata fino alle 10 di mattina, perché fino ad allora veniva giù il diluvio universale. Poi, in attesa della prossima ondata proveniente dal Golfo del Messico, ecco apparire il sole potente e senza compromessi che ho conosciuto da quando ho cominciato il mio viaggio.

Così, giocando a nascondino con le nuvole, sono passato dal villaggio di Langtry che, in condizioni normali, sarebbe passato completamente inosservato, come uno dei tanti punti sulla cartina stradale che si risolvono in quattro case abitate, tante case abbandonate e una stazione di servizio che funge allo stesso tempo da tabaccheria, ferramenta, drogheria, negozio di alimentari, lavanderia e campeggio. E invece no. Ci sono due motivi per cui ricordare Langtry.

Il primo è che qui, nel 1883, terminarono i lavori dei due tronconi della ferrovia che univa New Orleans a San Francisco, e la loro congiunzione fu suggellata da un chiodo d’argento piantato nell’ultima traversina. Già questo sarebbe stato motivo sufficiente per ottenere un posto nella storia nazionale, ma Langtry fece molto di più.

Servì infatti da sfondo alla vita e soprattutto alle sentenze di uno dei giudici più pittoreschi che il West abbia mai conosciuto: Roy Bean, colui che venne ribattezzato “la legge ad ovest del Pecos”. Gli ultimi decenni dell’800 videro da queste parti la nascita (e la scomparsa) di decine di accampamenti e nuove città, luoghi per minatori, ferrovieri, coloni e cowboy, ma anche per gente con pochi scrupoli, ladri, banditi, bari, (nani) e ballerine.

I responsabili delle ferrovie e i ranger del Texas decisero di chiedere, vista l’illegalità rampante (e la non disponibilità di Tex, alle prese con Mefisto), la nomina di un giudice di pace tuttofare. Ed ecco apparire nel 1882 Roy Bean, giudice di pace della contea del Pecos, che riuniva nei locali di sua proprietà tre attività alquanto disparate: saloon, sala biliardi e corte di giustizia.

Quando un imputato veniva portato al suo cospetto, il barista Bean toglieva il grembiule, estraeva l’unico libro su cui diceva di basare le sue sentenze, cioè lo statuto del Texas, e chiedeva ai clienti del saloon di formare una giuria. L’alcotest non esisteva ancora. Poi appoggiava sul tavolo un revolver con sei colpi in canna, ma non per usarlo, piuttosto come simbolo di quello che voleva dire la giustizia ad ovest del Pecos.

Ma il giudice Bean era forse quello che oggi alcuni definirebbero un giustizialista?

Direi più no che sì, nonostante la sua famosa massima: “Prima si impiccano, poi si processano”. La sua profonda convinzione infatti era che lo stato di diritto doveva essere difeso a tutti i costi, ma allo stesso tempo aveva stabilito che qualsiasi reato era “multabile”.

In altre parole, nessuno è mai stato condannato alla forca, ma ogni reato era sanzionato con una pena pecuniaria che il giudice, guarda caso, intascava personalmente. Anche nel caso dell’abigeato, il furto di bestiame, il colpevole veniva privato di ogni suo possedimento, fino al cavallo e alla pistola e gli veniva intimato di lasciare la città e di non farvi mai più ritorno, pena l’impiccagione. Così erano tutti contenti: i probi cittadini di Langtry che vedevano trionfare la giustizia, la vittima del furto, che recuperava le bestie, il ladro in questione che la faceva franca e soprattutto il giudice Bean, che aveva un cavallo e una pistola da vendere e un gruzzolo confiscato da mettere sul suo conto in banca.

Prima di emettere la sentenza e durante il processo, a seconda del numero di giurati e di spettatori, il “giudice” interrompeva la seduta, rimetteva il grembiule e serviva i clienti. Questo lo aiutava probabilmente a soppesare per bene gli articoli del codice da applicare .

Nel 1896 arrivò ad organizzare un incontro di boxe, titolo in palio. Per eludere le ferree leggi del Texas e il divieto dei ranger, fece costruire un ponte sul Rio Grande, che tanto grande non è dalle parti di Langtry, e invitò tutti a sconfinare in Messico per vedere il combattimento e, ovviamente, organizzare le scommesse. I giornali dell’epoca sono pieni di commenti piccati ma anche ammirativi sulla spregiudicatezza di questo colorito tutore dell’ordine.

Ho visitato il locale in cui Bean esercitava la sua personalissima forma di giustizia e ho scoperto che l’aveva chiamato “The Jersey Lilly”, dal nome di una famosa attrice inglese dell’epoca che aveva visto a teatro a San Antonio, Texas, e di cui si era perdutamente invaghito.

Sul frontespizio del locale campeggiava un cartello che lo definiva “ teatro d’opera, municipio e corte di giustizia”, poiché Bean sperava che la sua attrice preferita un giorno vi si sarebbe esibita. Le scrisse tantissime lettere in cui le parlava della città a lei intitolata, ma quando Lillie Langtry finalmente accettò nel 1904 di visitare la “sua” città, il giudice/barista/spasimante era appena morto.

Così andavano le cose nel Texas di fine ‘800, uno stato di dimensioni gigantesche, geloso della sua diversità, fiero della rivoluzione cruenta con cui aveva conquistato l’indipendenza dal Messico e determinato a non lasciarsi fagocitare dalla burocrazia del governo centrale insediato a Washington.

Un solo dettaglio, per far capire la mentalità: l’adesione del Texas all’Unione prevede una clausola molto particolare, secondo la quale lo stato può essere diviso in un massimo di cinque stati (da Texas 1 a Texas 5). L’opzione non è mai stata esercitata, ma se lo fosse questo territorio assumerebbe un peso strategico esagerato, se si considera che ha appena 24 milioni di abitanti. Infatti manderebbe a Washington non più gli attuali due senatori, bensì dieci!

Questi legislatori texani, memori del loro passato, strenui difensori della tradizione del territorio e paladini dell’ordine ad ovest del Pecos, farebbero certamente di tutto per modernizzare il sistema giuridico dell’intero paese.

E con un’appropriata convenzione internazionale il nuovo sistema giudiziario americano potrebbe essere introdotto anche in Italia.

Pensate: Mister B. giudicato da Mister Bean!


View G 23 Marathon (TX) – Sanderson (TX) in a larger map
[alert close=”no”]G 23 > Marathon (Tx) – Sanderson (Tx) 85 km[/alert]

La “Texas Herpetological Society”, ovvero la associazione texana di erpetologia, non riunisce tutti coloro che soffrono di herpes labiale, cioè la cosiddetta febbre delle labbra che ci angustia quando l’organismo è indebolito.

Infatti, l’erpetologia è quella branca della scienza che studia i rettili, e secondariamente gli anfibi.

E qui, a Sanderson, paese di 700 anime alle soglie del Big Bend National Park, inconto Roy, il proprietario strabico del motel dove passo la notte.

Mentre mi sta registrando, noto sul bancone un grande libro con foto di serpenti del Texas e comincio a sfogliarlo con fare indifferente, come se a me i serpenti fossero simpatici: non l’avessi mai fatto.

Roy mi mostra la stanza alle mie spalle, che altro non è che il suo rettilario, una ventina di cassette che contengono alcuni dei principali rettili (vivi, ovviamente) del Texas. Una cassetta porta lo spiritosissimo avvertimento di non metterci le mani dentro. Mi guardo bene dall’entrare nella stanza e pur essendo nervosissimo faccio finta di nulla e butto lì:

“Ma le camere sono sicure, vero?”

“Certo, ma se vuole un serpente in camera sono 10 dollari in più, ha ha ha!”, mi fai lui con l’occhio in trasferta!

Umorismo del sud.

Più tardi, parlando con sua moglie, sento che Roy è occupato in un’altra casa giusto lì dietro e scopro che dei serpenti ne ha un altro centinaio, provenienti da tutto il mondo e che per nutrirli ha anche un allevamento di topi. Giuro che se ci fosse stato un altro motel sarei andato via di corsa; invece ho controllato tutti gli angoli della stanza e ho guardato anche sotto il letto prima di spegnere la luce, perché l’umorismo del sud va bene, ma qua la realtà supera la fantasia e uno che ha dei serpenti disegnati anche sulla maglietta per me ha un problema.

Superata la notte praticamente in bianco e col coltellino svizzero a portata di mano nel caso in cui, a colazione non ho potuto trattenermi dal fargli qualche domanda e sono rimasto stupefatto.

Roy ha un unico hobby nella vita, anzi una passione sfrenata: raccogliere serpenti, velenosi e non. Lo fa anche, dice, a scopo educativo, nel senso che tiene lezioni su questi animali a chiunque lo chiami, dalle scuole alle guardie di frontiera, passando per i turisti e altri appassionati del “settore”. Insegna come comportarsi nel caso si venga morsi e raccomanda di non succhiare il sangue e/o veleno, citando, come nuovo splendido esempio di umorismo del sud, la famosissima barzelletta del morso nelle parti intime che si racconta, pari pari, in tutto il mondo.

Mi assicura che da qualche anno si limita agli animali fino a due metri (capirai il sollievo), che esiste un commercio fiorente di rettili, che i cavalli sono gli animali che causano il maggior numero di morti e che c’è più gente che muore mentre pesca (perché cade nel fiume e annega) che non morti da avvelenamento da rettili. Se lo dice lui…

Mi mostra pitoni australiani, africani, crotali, serpenti a sonagli di ogni foggia e colore. Addirittura ha davanti a casa un enorme fossile di serpente. E a proposito di colore, si vede che alla fine della visita guidata ero un po’ pallido, perché mi ha offerto un caffé orrendo, ma ben zuccherato.

Ho scoperto che spesso va in giro di notte per le sue battute di caccia, armato solo di una torcia e di scarponi ben solidi. Le guardie di frontiera lo conoscono e lo lasciano fare, a loro non frega nulla del fatto che Roy non ha nessuna licenza per tenere il suo zoo personale. Anzi, a loro fa comodo avere uno così che vaga nel semi-deserto al confine col Messico e li informa se vede movimenti sospetti. Contenti loro…

Roy invece ce l’ha con lo stato del Texas, dove per legge non si può raccogliere un serpente che si trova lungo la strada, mentre si rosola al sole: verrebbe considerata caccia di frodo!

Piuttosto, per farmi capire quanti e quali erpetologi ci siano da queste parti (Roy si considera tale), mi dice che in giro per il deserto mi capiterà di vedere, piantate in terra, delle iniziali in ferro: sono in realtà delle piccole lapidi di gente come lui che ha chiesto di far spargere le proprie ceneri nel deserto, anzi nel punto preciso del deserto in cui hanno catturato il loro primo esemplare di “King snake”, il re dei serpenti e preda ambitissima ad anelli colorati: non è velenoso ma è cattivissimo, al punto che si nutre, stritolandoli, anche dei serpenti a sonagli.

Io non so voi, ma anche se il cielo prometteva pioggia, io ho preferito comunque prendere la strada, e chissà perché ho tenuto tutto il giorno gli occhi fissi sul nastro d’asfalto. È così che, dopo aver incontrato l’ennesimo posto di controllo, ho notato un’altra presenza insolita in corsia d’emergenza: due o tre pneumatici da camion legati con una catena. Ho scoperto anche a cosa servono.

Le pattuglie di frontiera li attaccano alle loro jeep e li usano per “spazzare” una striscia di terreno al lato della strada, in modo che possono ritrovare le tracce dei clandestini di passaggio o dei cosiddetti “coyotes”, coloro cioè che, dietro compenso, raccolgono i clandestini e li portano in un luogo sicuro. E pensare che Tex sapeva ritrovare le tracce dei banditi anche nelle acque del Pecos…

Finisco raccontando che la tappa è stata difficile a causa della pioggia, fine ma insistente per oltre metà del percorso, e per via del vento costantemente contrario o, nella migliore delle ipotesi, laterale. Pedalare controvento bagnati fino al midollo non è la cosa più piacevole del mondo, anzi è demoralizzante, come sa chiunque vada in bicicletta.

Quindi, come dice Roy, “è favoloso arrivare con l’ultima pedalata del giorno in un bel motel di campagna, fosse anche pieno di serpenti. Ha ha ha!”

L’umorismo del sud comincia a stancarmi.


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[alert close=”no”]G 22 > Fort Davis (TX) – Marathon (TX) 88 km[/alert]

La ridente cittadina di Marathon, oltre ad avere allegramente usurpato un importante nome storico, ha un’altra particolarità: non ha IL comune, bensì LA comune.

Joe Estes, quello della visita al ranch, mi aveva detto che a Marathon c’era gente un po’ strana, tipo hippy, ma era chiaro che si basava su un racconto tendenziosissimo fattogli da terzi, probabilmente dallo sceriffo.

Sulla strada per Marathon, mi sono fermato in un negozio di bici di Alpine e il proprietario, John, capello lungo biondo e aria un po’ assopita, mi fa:

“Hey, ma se vai a Marathon ti do io un indirizzo dove puoi dormire gratis! Ci mando un sacco di ciclisti come te e trovano tutti posto”. Mi disegna uno schemino e parto con la sua benedizione, ma soprattutto con gli pneumatici rimessi a pressione.

Ora, ammetto di avere avuto sull’istante un riflesso di diffidenza, memore dell’antico ma sempre valido detto romagnolo secondo il quale “nessuno lega il cane con la salsiccia”, vale a dire nessuno ti dà nulla per nulla e quindi è meglio non credere alle promesse troppo mirabolanti.

Così, pedalando controvento, giungo stanco a destinazione e prendo una camera nell’albergo del paese. È un bellissimo edificio storico, mantenuto più o meno com’era quando ci bazzicavano Tex e Kit Carson. Dire che è spartano è riduttivo, nel senso che per il doppio del prezzo di un motel si ha il piacere indescrivibile di non avere il bagno in camera, di avere le pareti di legno attraverso cui si sente tutto, un baldacchino di tronchi di pino, un pavimento pure di legno scricchiolante, che se fai un passo svegli il portiere, un magnifico ventilatore a pale sul soffitto che tocca il lampadario e fa “tic” a ogni giro, insomma, tutto il lusso più sfrenato che neanche al Danieli.

Mancava solo la tinozza per fare un bel bagno, ma vuoi mettere il gusto di attraversare seminudi il corridoio per andare nella “men’s room”?

Insomma, prima di andare al saloon, pardon al bar dell’albergo, che si trova in un locale adiacente, mi prende lo sghiribizzo di visitare questo fantomatico dormitorio gratuito. Dovete sapere che in tutti questi villaggi che attraverso ogni attività che si rispetti si trova sulla “main street”, un po’ come i paesini sulla Romea. La qualche stradina laterale che c’è funge da periferia e costringe gli americani a comperare un pick up per percorrere i 200 metri che li separano dalla bottega degli alimentari.

Ebbene, questa “periferia” mi colpisce sempre, dal tanto che è orrenda. È il regno del “piano regolatore fai da te”, una specie di terra di nessuno in cui si trovano, fianco a fianco su strade non illuminate e non asfaltate, casine graziose in stile tirolese ma con il tetto di lamiera, case “mobili” trasandate, camper che servono da abitazione permanente, cortili di auto abbandonate ad arrugginire e una chiesa fatta a forma di igloo.

Alla fine di tutto questo ben di dio compare un terreno assai vasto, che già al primo impatto visivo mostra una sua differenza: c’è un disordine epocale, ma tutto, a cominciare dalle casette, è diverso, insolito, colorato a tinte vivaci.

E poi ci sono persone, giovani e non, che lavorano con aria intenta ma trovano subito il tempo di accogliermi come se fossi un cugino che non si fa vivo da un po’:

“Sei un ciclista? Che bello, fai pure un giro, entra dove ti pare.

In quella casa laggiù ci sono i miei quadri. Questo è Mark, mi tieni un attimo il badile che ti prendo una birra?

Rimani anche tu a dormire?” E avanti di questo passo.

E io mi metto a girare, a guardare nelle case, a fotografare, ad innaffiare l’orto rigorosamente biologico, finché incontro il proprietario, Gil, originario del Kansas, faccione da attore, pilota d’aereo e Bill, pensionato di Austin che sta qua perché trovava troppo cari gli affitti, e Ali, e Miguel e Matt, un olandese che si sta costruendo una casa proprio lì e mi dice che oggi è il compleanno del suo vicino italiano, Angelo. E non so quanti ancora.

Poi arriva un gruppo di ciclisti, fortunati perché fanno la traversata dell’America da est a ovest e quindi hanno il vento alle spalle! Loro si fermeranno a dormire.

Gil mi spiega che lui vede la sua creatura come un ostello, anzi lo chiama un caravanserraglio. Chiunque è benvenuto, per una notte, un mese, una vita. Basta che contribuisca con quello che sa fare. E i ciclisti sono sempre i benvenuti, tanto che la voce si è già sparsa tramite il tam-tam di internet e presto il “caravanserraglio” farà parte di “Warm showers”, l’associazione che garantisce ospitalità e appunto una doccia calda a chi fa turismo in bicicletta.

Vado via dicendomi che forse ho trovato qualcuno che veramente lega i cani con la salsiccia e per meditare vado al ristorante dell’albergo, dove, per il doppio del prezzo di una camera, si mangia sempre male, ma hai almeno la soddisfazione di vedere un tovagliolo di cotone e delle posate di metallo. Che non è poco.

Ceno e passo dal bar.

Ah, non fatevi l’idea che sia un tiratardi. Da queste parti si cena dalle sei alle sette, dopo le otto ci si mangia le unghie.

Dicevo il bar. Una signora dalla lingua impastata e dall’occhio bovino mi fa: “A est non si trovano tutti questi tipi di tequila!” Sbigottito, vedo il cameriere che le porta, uno dopo l’altro, sei bicchieri di tequila di marche a me sconosciute che lei degusta.

Il marito è di fronte a lei con un otre di Coca cola. Lei, ormai fuori come un balconcino, gli spiega la tequila.

Ultimo colpo di scena. Praticamente metà della “comune” entra nel bar, che scopro essere l’unico locale aperto stasera. Con Gil c’è un omino piccolo, magrissimo, una specie di don Lurio nel fisico e di Dan Peterson nell’eloquio: il mitico Angelo! Ormai so tutto di lui, è venuto da Bari a 15 anni, New Jersey, Vermont, laureato, per vivere fa “un po’ di questo e un po’ di quello” (testuale) e si professa nientemeno che “anarchista”. Beve bourbon. Molto bourbon. E sorride, mi racconta cos’è la vita per lui, mi spiega il paese, mi presenta sua moglie, e mi vuole invitare a dormire da loro e a fare colazione la mattina dopo…

Riesco a tornare nella mia stanza western, che la birra mi fa sembrare ancor più scricchiolante.

Io non so quanti villaggi di provincia riescano, come fa Marathon, a concentrare una clientela così eterogenea, dal filantropo aviatore, all’esperta di tequila, all’ ”anarchista” pugliese, ai figli, nipoti e pronipoti dei fiori, al funzionario europeo di passaggio. Comunque vado a letto contento.

Se il vento continua a essermi contrario, quasi quasi smetto di fare il ciclista.

Divento “Marathoneta”.

Ps: Domani tappone con campeggio. Internet non so. Oggi pioggia e tempo brutto in prospettiva. Sono a Sanderson e il blog ha già un giorno di ritardo. Appena posso, recupero!